Il 18 aprile 2015 Mohammed Alì Malek e Ahmud Bikhit avrebbero causato la più grande strage di esseri umani nel mar Mediterraneo. Ne sono convinti i magistrati della procura di Catania che al termine dell’udienza di oggi hanno chiesto la condanna a 18 anni di carcere per il presunto capitano del peschereccio e a sei anni per il suo aiuto mozzo. Arrivati in aula alle 11, accompagnati dalla polizia penitenziaria, i due imputati hanno assistito all’udienza da dietro le sbarre, seduti accanto, dentro a una piccola cella. Le loro posizioni processuali sono però nettamente diverse: Alì Malek, 28 anni originario della Tunisia, è accusato di strage in mare, omicidio colposo plurimo e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Quest’ultimo reato è la stesso che viene contestato al siriano Bikhit. Per entrambi, dopo l’ispezione subacquea, è caduta l’ipotesi del sequestro di persona.
Per i magistrati Andrea Bonomo e Rocco Liguori il naufragio, in cui persero la vita 700 persone, sarebbe da imputare alla manovra errata di Alì Malek nell’avvicinamento al mercantile portoghese King Jacob. La nave cargo dirottata a largo delle coste libiche dalla centrale operativa della Guardia costiera italiana dopo le richieste di soccorso in mare fatte con un telefono satellitare. Gli uffici giudiziari etnei, nel 2015 ancora guidati da Giovanni Salvi, hanno sempre escluso qualsiasi responsabilità per l’equipaggio del mercantile. Passaggio che tuttavia non ha mai convinto le difese e che potrebbe essere analizzato nelle prossime due udienze. Appuntamenti dove prenderanno la parola gli avvocati Giuseppe Ivo Russo e Massimo Ferrante. «La richiesta di oggi era attesa – spiega il primo, che difende Bikhit -, ma forse c’è una corresponsabilità colposa del mezzo che ha prestato i soccorsi». Alcuni membri dell’equipaggio del King Jacob sono stati sentiti dagli inquirenti a Palmi, in Calabria, subito dopo l’approdo del mercantile al porto di Palermo.
Forse c’è una corresponsabilità colposa del mezzo che ha prestato i soccorsi
In aula, ad alternarsi durante l’udienza che si svolge con il rito abbreviato davanti alla giudice Daniela Monaco Crea, sono stati entrambi i magistrati. Liquori e Bonomo nella loro requisitoria hanno ripercorso la storia del naufragio anche attraverso le testimonianze raccolte in passato dalla voce di 12 superstiti. Il viaggio sarebbe stato diviso dai trafficanti in più passaggi: dalla traversata lungo il deserto del Sahel fino a una lunga sosta, in alcuni casi durata mesi, all’interno di alcune fattorie nei pressi di Tripoli. Nella città libica, uomini, donne e numerosi minori sarebbero stati minacciati con l’uso delle armi e avrebbero pagato somme variabili tra 500 e mille dinari per il viaggio verso la Sicilia. Tra le parti civili del processo ci sono due sopravvissuti che all’epoca dei fatti erano minorenni.
Il relitto del peschereccio, che si trova a cento chilometri dalla Libia a una profondità di 370 metri, è finito anche al centro di un’operazione di recupero voluta dal governo italiano ma che non avrà nessuna attinenza con l’inchiesta giudiziaria. L’obiettivo è quello di recuperare il natante insieme a quello che rimane al suo interno di circa 500 vittime. Tutto verrà poi trasferito al porto di Augusta. Una grande operazione da decine di milioni di euro «per aprire gli occhi all’Europa», come ha spiegato il presidente del Consiglio Matteo Renzi. Il progetto però al momento si è arenato a causa delle cattive condizioni del mare, e i tempi sembrano allungarsi sempre di più. All’opera ci sono quattro navi della Martina militare e 150 uomini.
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