Il capo dello Stato dall'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo ricorda Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. E avverte: per fare scacco matto a Cosa Nostra serve «un salto in avanti. Come collettività». Perché l'azione predatoria dei boss è «una zavorra per l'Italia intera»
Strage Capaci, l’impegno di Mattarella «La mafia può essere sconfitta e la batteremo»
Le foto con i ragazzi, il lungo applauso che lo accoglie all’ingresso dell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, arriva al tempio laico della lotta a Cosa Nostra a metà mattina. Insieme a lui nel capoluogo siciliano, nel giorno del 23esimo anniversario della strage di Capaci, ci sono il presidente del Senato, Pietro Grasso, e i ministri della Giustizia, Andrea Orlando, e dell’Istruzione, Stefania Giannini. E’ il giorno del ricordo. Dei giudici antimafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ma anche dei loro angeli custodi, gli agenti della scorta. I loro nomi il capo dello Stato li pronuncia ad uno ad uno perché «desidero che nemmeno per un attimo venga collocato in secondo piano il martirio degli altri servitori dello Stato».
A Palermo lui, il presidente-familiare di una vittima di mafia, lo dice a chiare lettere. Il tono è pacato, ma deciso: «Sconfiggere per sempre le mafie è un’impresa alla nostra portata». E nell’aula in cui fu celebrato il maxi processo a Cosa Nostra le sue parole hanno un valore ancora più forte. «Siamo qui per rinnovare una promessa: batteremo la mafia, la elimineremo dal corpo sociale perché è incompatibile con la libertà e l’umana convivenza. E perché l’azione predatoria delle varie mafie ostacola lo sviluppo, impoverisce i territori, costituisce una zavorra non solo per il Sud ma per l’Italia intera».
«Fare memoria però non è soltanto un omaggio doveroso a donne e uomini di grande valore – dice Mattarella ai giovani che affollano l’aula bunker -. La memoria di Falcone e di Borsellino comprende, per noi, la ribellione civile all’oppressione mafiosa che, da quei drammatici giorni, da Palermo e dalla Sicilia, ha avuto un enorme sviluppo». Certo lo Stato ha ottenuto «importanti successi», la società italiana «non si è rassegnata a vedere umiliata la propria dignità» e in questi anni «ha continuato a mobilitare le coscienze e a rigenerare energie positive». Ma per raggiungere il traguardo, per fare scacco matto ai boss, per Mattarella occorre «un salto in avanti» da compiere «come collettività».
«Giovanni Falcone – dice ancora il capo dello Stato – divenne bersaglio della mafia perché aveva capito che per combatterla occorreva qualcosa di più che essere un onesto e bravo magistrato». Occorreva conoscere «i complessi meccanismi dell’organizzazione, le sue dinamiche interne e la pseudocultura che la lega al proprio entroterra». Giovanni Falcone, ammonisce Mattarella, sapeva che «la repressione penale era indispensabile», ma sapeva anche che «da sola non era sufficiente a debellare definitivamente questa piaga».
Eccolo, allora, il nodo per il presidente della Repubblica. Accanto al lavoro di magistrati e forze dell’ordine che «spesso rischiano la propria vita» è necessaria «un’azione convergente e forte» anche su altri versanti. «Su quello delle istituzioni politiche e amministrative, in cui correttezza, trasparenza ed efficienza chiudano spazi alle infiltrazioni e alle influenze mafiose. Sul versante economico-sociale, perché un tessuto sociale robusto, e tranquillo per il lavoro, si difende meglio dalle pressioni criminali. Su quello culturale ed educativo, con una costante formazione delle coscienze, individuali e collettive, che custodiscano il senso della legalità».
Perché la sopravvivenza delle organizzazioni criminali è favorita «dall’area grigia dell’illegalità, dalla convinzione che si possa fare a meno di un rigoroso e costante rispetto delle regole. Mafia, illegalità, corruzione non sono sempre la stessa cosa, ma si alimentano a vicenda. Per battere il cancro mafioso bisogna affermare la cultura della Costituzione, cioè del rispetto delle regole, sempre e dovunque, a partire dal nostro agire quotidiano».
Prima di lasciare l’aula bunker un accenno ai temi di più stretta attualità. Primo tra tutti la crisi, che «allarga pericolosamente le distanze interne al nostro Paese. Tra il Nord e il Sud. Tra i più ricchi e i più poveri». Poi l’emergenza disoccupazione. «I giovani senza lavoro sono un numero intollerabile per un Paese civile. Sono fratture che ci interrogano come nazione e che dobbiamo affrontare da Paese unito». Perché lo ribadisce il presidente della Repubblica «la nuova questione meridionale» è «una questione nazionale», da essa dipende «il nostro futuro e la collocazione dell’Italia in Europa. Senza una nuova crescita delle Regioni del Sud, l’Italia finirà in coda all’Unione europea».
Infine a sorpresa il calcio. «Che mafie di varia natura cerchino di modificare il risultato delle partite e di lucrare sulle scommesse è una vergogna. Questa metastasi va estirpata con severità e rapidità. Non possiamo accettare che la bellezza dello sport, la crescita dei giovani e un divertimento degli italiani vengano così stravolti e sporcati». Per «far germogliare una nuova primavera italiana – conclude Mattarella – serve un impegno corale».