«Devi andare a cercare tuo fratello in Sicilia, non so se è ancora vivo, ma potrebbe essere sbarcato». Ieri mattina una telefonata ha stravolto la giornata di Maz, businessman siriano trasferitosi nel Regno Unito. Dall'altro capo del telefono c'è la madre, rimasta nel Paese dilaniato dalla guerra civile, avvisata da una telefonata del probabile arrivo del figlio più piccolo sulle coste dell'Isola. L'uomo raggiunge nel pomeriggio il porto di Catania, dove avviene il commovente ricongiungimento. Che, però dura poco. «Ha rifiutato di venire con me perché non vuole farsi identificare», racconta Maz. Lo stesso vale per gli altri siriani arrivati ieri. Guarda le foto
Siria, da Dover a Catania in cerca del fratello L’incontro e il nuovo addio al molo del porto
Quando il telefono squilla nella casa di Maz, a Dover, in Inghilterra, è ancora mattina. «Devi andare a cercare tuo fratello in Sicilia, non so se è ancora vivo, ma potrebbe essere sbarcato». Una voce di donna: l’amore di una madre per i figli non conosce mezze misure, esitazioni, tentennamenti. L’ordine viene da migliaia di chilometri di distanza, da Lattakia, città portuale della Siria vicino al confine turco, contesa a lungo nei mesi estivi dai ribelli e dall’esercito di Bashar al Assad, dilaniata dalla guerra civile. Maz non aspetta un minuto di più. Lascia il suo lavoro di businessman, dà un bacio ai suoi due figli e prende il primo biglietto disponibile su un aereo diretto Londra-Catania.
Alle sei e mezza del pomeriggio è davanti alla sbarra del porto del capoluogo etneo. Qui, gli hanno detto, sono stati fatti sbarcare i 263 migranti di origine siriana, palestinese ed egiziana intercettati dalla capitaneria di porto la scorsa notte. Una ventina – quelli che hanno acconsentito all’identificazione – sono già stati trasferiti al Palaspedini, accanto allo stadio Massimino.
[Ascolta l’audio della mediatrice palestinese Suad Abutouq, di servizio al Palaspedini].
Ma la maggior parte del gruppo è ancora sul molo sud del porto, lì dove il mercantile battente bandiera panamense li ha lasciati alle otto di ieri mattina. Molti hanno ancora i vestiti logori della traversta, partita dall’Egitto e durata dieci giorni secondo le loro testimonianze. Qualcuno indossa una maglietta pulita della Ipi-Oikos, la ditta della raccolta rifiuti, donata dal Comune. Ci sono tanti bambini, uno di appena due anni, a cui i genitori scattano foto ricordo. Mentre i minori non accompagnati sono stati trasferiti già al mattino nelle comunità idonee. In un gazebo bianco della Croce Rossa le visite mediche vanno avanti senza sosta. Di fronte, una grande tenda militare dove viene distribuito il cibo e accanto una camionetta della polizia in cui i migranti vengono fatti salire ad uno ad uno, probabilmente per procedere all’identificazione. A cui nessuno però vuole sottoporsi. Tutto attorno un via vai di carabinieri, finanzieri, poliziotti, volontari della protezione civile, mediatori culturali ed interpreti. «Riuscite a procurare dell’acqua? Ce la vengono a chiedere di continuo, ma non ne abbiamo», chiede un’operatrice della Croce Rossa ai volontari. Niente da fare, bottigliette d’acqua non ce ne sono più.
Maz si avvicina alle transenne. Tira fuori il suo passaporto. «Sto cercando mio fratello, forse è qui». Un carabiniere mostra il nome e il cognome ad uno dei migranti che fa cenno di sì con la testa. La speranza di Maz si accende. L’uomo torna dopo qualche secondo, tenendo sotto braccio la persona sbagliata. Non è lui. Dice di pazientare ancora. Ricompare a fianco di un uomo robusto. Maz fa uno scatto in avanti, oltrepassa le transenne e va incontro al fratello che si abbadona tra le sue braccia. L’omaccione si è trasformato in bambino. Maz ha gli occhi bagnati di lacrime. I carabinieri attorno si commuovono. Ma l’empatia dura pochi secondi. «Dai, adesso andiamo via, lo Stato italiano si è già occupato abbastanza di te, ora ci penso io». Maz dice di conoscere la legge europea, di aver lavorato come interprete a Dover per i rifugiati siriani nel Regno Unito. Le forze dell’ordine lo stoppano: prima l’identificazione. «Se lascia le impronte, in venti minuti puà portarselo via», spiega un dirigente di polizia. Al businessman siriano di stanza in Inghilterra sembra fatta. Una chiamata alla mamma in Siria per dire che Ahmed sta bene, è vivo e si trova in Italia. Quindi prova a passargli il cellulare, ma una funzionaria lo blocca. Va bene parlare di presenza, ma non al telefono.
Tuttavia quello che per Maz era l’ultimo, forse più semplice, passo verso il ricongiungimento familiare si interrompe bruscamente. Ahmed non intende lasciarsi identificare. E come lui, tutti gli altri. Nasce un’accesa discussione, si forma un nutrito capannello in cui Maz e il mediatore culturale cercano di convincere il gruppo a cessare l’ostilità. Ma i minuti passano invano. «Mio fratello ha rifiutato di venire a casa mia – spiega Maz – Lo avrei portato in albergo stanotte, si sarebbe potuto lavare e avere vestiti puliti ma non ha voluto. Non intendono restare qui, ma non conoscono le leggi e il sistema dei Paesi in cui stanno arrivando». L’uomo venuto da Dover si arrende, saluta Ahmed e risale sul taxi in direzione aeroporto da cui tornerà a Londra col primo volo utile. «Non so quali sono i progetti di mio fratello – conclude – ma adesso non posso restare, ho lasciato i miei figli e il lavoro. L’importante è poter dire a mia madre che lui è vivo».