Sicilia, la crisi finanziaria preoccupa i militari americani? Ragioni e numeri di un possibile default imposto da Roma

Più che un’indiscrezione sembra una domanda dettata dalla ragione delle cose: non è che la crisi finanziaria della Regione siciliana – con possibili risvolti sociali drammatici – potrebbe iniziare a creare problemi ai militari americani? La nostra Isola, questo ormai è chiaro a tutti, oggi più di ieri, è un avamposto strategico per gli interessi Usa: c’è la base di Sigonella, alle falde dell’Etna, vero e proprio arsenale da guerra; e c’è il Muos di Niscemi che domina sulla Mitteleuropa, sul Mediterraneo e sul Medio Oriente. A chi gioverebbe lo sconvolgimento finanziario e sociale dell’Isola?

Tra l’altro, se si trattasse di un luogo di spendaccioni, come si cerca di far credere, tutto, alla fine, potrebbe rientrare nel normale dibattito politico. Ma le cose non stanno così, perché le ragioni della crisi finanziaria della Regione degli ultimi quattro anni stanno in minima parte in Sicilia e in massima parte a Roma. E questo non sfugge agli occhi di chi, nell’Isola, gioca un’importante partita di geopolitica militare. 

In questa storia c’è una sequenza di alcuni avvenimenti che vale la pena di ricordare. 

Si comincia con la legge Finanziaria nazionale del 2007. Quando si stabilisce che la quota di compartecipazione della Regione alle spese della sanità sarebbe passata dal 42 per cento circa al 50 per cento circa. Viene stabilito che la Regione avrebbe avuto diritto, a titolo di risarcimento per i maggiori esborsi, a una quota delle accise sui carburanti. 

Il primo passaggio di questa legge è chiaro. In tre anni – a partire dal 2009 – la Regione si ritrova a pagare 600 milioni di euro all’anno in più. Ma il riconoscimento delle accise sui carburanti non verrà mai applicato, perché il passaggio della legge Finanziaria che lo prevede è sofferto, mentre la Conferenza Stato-Regioni – chiamata a partecipare attivamente a questo accordo – non farà mai chiarezza su tale punto. Il risultato è che, oggi – caso unico in Italia – la Regione siciliana, su una spesa sanitaria di poco inferiore 9 miliardi annui (con una spesa pro capite inferiore a quella di altre Regioni italiane), versa circa 6,2 miliardi di euro all’anno. Con una pesantissima quota a carico degli imprenditori siciliani, chiamati a versare un’Irap stellare. 

E’ del 2009 il Piano di rientro dal deficit della sanità. La Regione contrae un prestito di 2,6 miliardi con lo Stato (le rate del mutuo sono in corso di pagamento) e porta ai massimi livelli le aliquote Irpef e Irap. Tre anni dopo le aliquote avrebbero dovuto essere ridotte. Ma questo non avverrà mai, in parte per responsabilità della Regione, in parte per responsabilità dello Stato. 

Già in quegli anni la Regione – nonostante il Piano di rientro dal deficit della sanità andato a buon fine – presenta ogni anno uno sbilancio che varia da 700 milioni a un miliardo di euro. Più un presunto indebitamento – che verrà stranamente scoperto tra la fine dello scorso anno e i primi di quest’anno – con le Aziende sanitarie provinciali e le Aziende ospedaliere pari a circa 5 miliardi di euro, indebitamento fino ad oggi mai provato con i documenti ufficiali. 

Nel 2013 arriva il primo accantonamento imposto da Roma: 915 milioni di euro (soldi che il governo nazionale trattiene dalle imposte pagate dai siciliani). Quest’anno, nuovo accantonamento da un miliardo e 150 milioni di euro (più circa 200 milioni di euro per gli 80 euro al mese). 

Quest’anno succede pure una cosa stranissima: la scorsa primavera il presidente della Regione, Rosario Crocetta, vola a Roma e, senza una preventiva riunione della giunta e non avvertendo il Parlamento siciliano, firma un accordo «sciagurato» (la definizione è dell’ex assessore regionale, Franco Piro, in un intervento sul nostro giornale) con il governo Renzi. 

La Sicilia rinuncia, per quattro anni, agli effetti di contenziosi con lo Stato. Rinuncia, in particolare, agli effetti di una sentenza della Corte Costituzionale di quest’anno che avrebbe potuto avviare un dibattito serio con Roma sulle competenze residue che il Governo centrale dovrebbe girare alla Regione: per lo più scuola, università ed enti locali. Tra dare e avere – in una partita di 10 miliardi circa di entrate in più per la Sicilia – la Regione ci guadagnerebbe. E, con molta probabilità, risolverebbe una buona parte dei problemi finanziari. Ma di applicare questa sentenza se ne parlerà fra quattro anni. 

Nel frattempo il governo nazionale applica alla Sicilia la legge sul federalismo fiscale solo per la parte che riguarda il taglio dei trasferimenti. La parte che riguarda la perequazione fiscale e infrastrutturale rimane sulla carta. Altre entrare in meno per il sistema-Sicilia (in particolare, per i Comuni) sempre con la regia dello Stato. 

Siamo arrivati ai giorni nostri. Il governo Renzi, con l’avallo del Parlamento nazionale, decide di prendersi, con una scusa banale, 3,5 miliardi delle risorse Pac (Piano di azione e coesione) destinati al Sud (fondi europei e nazionali riprogrammati lo scorso anno). Per la Sicilia si profila un taglio di 600 milioni di euro tra fondi per gli impianti sportivi, per i centri storici e, soprattutto, per la spesa sociale.

Proprio sulla spesa sociale la scorrettezza del governo Renzi è doppia: qualche mese prima ha ridotto di due terzi i fondi della legge nazionale n. 328 (spesa sociale) dicendo alle Regioni del Sud che avrebbero utilizzato, in alternativa, i fondi Pac. Ma poi si prende anche questi ultimi. Togliendo al Sud e, in particolare, alla Sicilia i fondi per anziani, infanzia e minori. 

Di più: a quanto si apprende nelle ultime ore, Renzi e compagni si vorrebbero prendere anche i fondi del Piano Giovani, facendo saltare la terza annualità dell’Avviso 20 (Formazione), tirocini formativi e tutto quello che contiene questo Piano. 

In tutto questo, nel progetto di Bilancio 2015 messo a punto dal Governo Crocetta, è già pronto l’accantonamento: lo Stato si accinge a prendersi un miliardo e 112 milioni di euro dalle entrate regionali.

Riassumendo: 600 milioni di euro di spese in più ogni anno per la sanità; prelievo di 915 milioni di euro dal Bilancio 2013; prelievo da un miliardo e 350 milioni di euro dal Bilancio 2014; mancata applicazione di perequazione fiscale e infrastrutturale per i Comuni; mancata applicazione della sentenza della Corte Costituzionale sulla territorializzazione delle imposte (ve ne abbiamo parlato qua); taglio da quasi un miliardo di euro dei fondi Pac; prelievo di un miliardo e 112 milioni di euro sul Bilancio regionale di quest’anno.   

Tutti questi fondi tagliati alla nostra Regione provocheranno, inevitabilmente, a partire da gennaio, sacrifici – se non licenziamenti diretti – per i circa 24 mila precari degli enti locali, per gli oltre 50 mila precari sparsi tra uffici ed enti regionali, per le Province (che ci sono ancora), dissesti finanziari a catena per centinaia di Comuni siciliani e via continuando. In pratica, uno sconvolgimento sociale e istituzionale. 

Da qui la domanda iniziale: non è che la crisi finanziaria della Sicilia voluta da Roma (e da chi altri se no?) – con possibili risvolti sociali drammatici – potrebbe iniziare a creare problemi anche ai militari americani? E’ tutta interna questa crisi finanziaria della Regione?   

   


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