Elezioni per le ex province in Sicilia: cosa c’è dietro il tentativo di ripristino sempre bocciato (e ormai ossessione di pochi)

Quello sulle elezioni nelle ex province siciliane più che essere un rebus sta assumendo i tratti di uno di quei film comici del filone tanto di moda a Hollywood negli anni Cinquanta. Pellicole in cui comici del calibro di Jerry Lewis o Abbott e Costello – da noi noti come Gianni e Pinotto – si districavano in vicende all’insegna dei giochi di parole, degli atti ripetuti in maniera compulsiva e degli strafalcioni che non impedivano ai malcapitati protagonisti di ripetere gli errori già più volte commessi. E così il centrodestra vuole le elezioni dirette dei presidenti delle province, scrive la sua bella riforma, se l’affossa praticamente da solo all’Assemblea regionale siciliana (Ars) e poi viene bacchettato da Roma, che gli fa notare che comunque non ci può essere un’elezione di primo grado se prima il parlamento nazionale non toglie di mezzo la riforma in vigore in tutta Italia, la cosiddetta legge Delrio.

Così i deputati siciliani se ne fanno una ragione, fissano una data per le elezioni di secondo livello – quelle previste dalla riforma nazionale e pure da quella siciliana, che prevede che a votare siano non i cittadini ma gli amministratori locali – tutti si dicono pronti. Poi alla fine qualcuno alza la mano e pronuncia la fatidica frase: «Ma se invece facessimo votare i cittadini?». E si riparte dall’inizio: riforma, bocciatura dell’Ars, bocciatura del governo nazionale e così via all’infinito. E ancora via di rinnovo perpetuo dei commissari alla guida delle province, che nel frattempo naufragano nel limbo della mancanza di fondi e di investimenti, di piani, di programmazione, di tutto. La differenza con i film degli anni Cinquanta è che quelli, in un modo o nell’altro, riuscivano a estorcere un sorriso, persino una risata; nella Sicilia del 2025, invece, l’unica cosa che questo comportamento reiterato oltre i limiti del masochismo riesce a fare è sollevare una domanda: perché?

Perché se il governo nazionale – peraltro dello stesso colore di quello regionale – dice di no, si ostinano a riproporre la stessa riforma? Tra l’altro pure la Corte costituzionale, non esattamente un organo qualunque, ha fatto notare che 13 anni di commissariamento delle province sono un po’ troppi e che forse sarebbe il caso di votare. Subito. E stavolta il messaggio sembra essere stato recepito, se non fosse che quella mancanza di una data – che tra l’altro prima era già stata fissata – per il voto di secondo livello autorizza a far temere l’eventualità che si alzi la solita mano per pronunciare la solita frase: «Ma se invece facessimo votare i cittadini?». E giù applausi, con la tiritera che ricomincia da capo. A Roma intanto si fa di tutto per non far apparire la differenza di vedute tra il centrodestra nazionale e quello isolano come una sorta di disturbo bipolare che da una parte promuove e dall’altra boccia. E ci sono i toni più o meno concilianti della maggioranza meloniana, dalla Lega che parla di «priorità del ritorno al voto per le province», ma poi non spinge sull’acceleratore, a Manlio Messinatrait d’union tra i Fratelli d’Italia romani e quelli siciliani – che parla della Delrio come di una «riforma devastante», ma esterna il bisogno di superarla «in maniera bipartisan», cosa che al momento appare una sorta di chimera. In pratica, tradotto in soldoni: no, non ci sarà una deroga per la Sicilia; e no, non c’è nessuna premura di abrogare la Delrio.

Quindi cosa succede? Si va a votare? Neanche per idea. Anche perché a spingere tantissimo per evitare il voto di secondo livello è Totò Cuffaro, con la sua Democrazia cristiana. D’altra parte i cuffariani sono gli unici della coalizione che sostiene Schifani a essere liberi da legami romani vincolanti. E parlano – lo ha fatto pure lo stesso ex governatore – di rischio di spaccatura nel centrodestra. Ecco, forse è questa la spiegazione più plausibile al perché di cotanta ostinazione. È bene ricordare, infatti, che con l’elezione di primo livello in ballo tornerebbero non una, ma qualcosa come trecento poltrone. Poltrone che altrimenti, con le elezioni di secondo livello, giocoforza risentirebbero nella loro assegnazione di un netto predominio da un lato dei partiti che esprimono più sindaci – e quindi più amministrazioni – sui vari territori siciliani, dall’altro lato di alleanze intraterritoriali e magari extrapartitiche volte a portare nei palazzi del potere rappresentanti del territorio. In nessuno dei due casi candidati espressi da logiche di lottizzazione votate a mantenere gli equilibri nella singola coalizione.

E l’opposizione? L’opposizione lascia che il gioco resti in mano al centrodestra. «Per le province e per il sistema elettorale il dilemma è tutto interno al centrodestra – dice la vicecapogruppo del Movimento 5 stelle all’Ars, Roberta Schillaci – Sono emerse tutte le contraddizioni e le differenze tra i partiti che sostengono i governi sia a Roma che in Sicilia. Per noi – continua Schillaci – è chiaro che non si può bypassare l’attuale norma nazionale, che ha aspetti di carattere finanziario inderogabili. Al momento c’è solo un orizzonte, che è quello delle elezioni di secondo livello». Parla invece di stallo alla messicana Mario Giambona, vicecapogruppo del Partito democratico all’Ars, secondo cui «le elezioni di secondo livello sono una condizione indispensabile per tutelare servizi essenziali come le strade e le scuole secondarie». Ma l’ombra del cuffarismo si è abbattuta anche sui Dem. Uno dei motivi alla base dello scontro feroce nell’ultima assemblea del Pd è proprio l’eccessiva voglia di una parte del partito – quella a dire il vero risultata finora perdente – di aprire alle forze di centro. Poco, certo, ma quanto basta per consentire alla Dc di giocarsi la carta del rischio scissione e raccogliere qualche risultato.


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