Sebastiano Scuto, i beni restano sequestrati I giudici rigettano l’appello dei difensori

Niente dissequestro per i beni dell’imprenditore Sebastiano Scuto. A deciderlo sono stati i giudici della quinta sezione penale del tribunale di Catania (presidente Gabriella Lataro, a latere Pietro Currò e Aurora Russo) che hanno rigettato l’appello proposto dai difensori dell’ex re dei supermercati siciliani. Gli avvocati, Guido Ziccone e Giovanni Grasso si erano opposti alla decisione dello scorso 28 luglio 2014 quando la prima sezione della corte d’appello aveva già rigettato una precedente richiesta di dissequestro. 

Secondo i giudici, i provvedimenti che hanno disposto il sequestro dimostrano per tutti i beni la loro «pertinenzialità al reato associativo, trattandosi di beni che sono serviti o sono stati destinati a consentire all’imputato la partecipazione alla associazione mafiosa clan Laudani». Gli stessi provvedimenti, continuano i togati nelle motivazioni, non hanno perso la loro efficacia dopo la pronuncia di annullamento della Cassazione. «In conclusione – si legge – la sentenza della suprema Corte legittima la prosecuzione del sequestro preventivo».

L’intricata vicenda giudiziaria dell’imprenditore puntese inizia nel 2001, anno in cui viene arrestato e successivamente condannato in primo grado per associazione mafiosa a quattro anni e otto mesi con relativo sequestro dei beni aziendali per una quota relativa al 15 per cento. Decisivo in quel contesto per la decisione del Tribunale risulta essere l’offerta d’acquisto presentata dalla Soipa spa. La società, in amministrazione giudiziaria, intende fare suoi dei rami d’azienda appartenenti a Scuto riconducibili ad Aligrup spa: K&K e Global Service. La documentazione entra misteriosamente nel fascicolo processuale soltanto nel maggio 2011 a quasi un anno dalla sentenza di primo grado datata 2010. Un atto definito «inesistente e inutilizzabile» dal procuratore generale Gaetano Siscaro che però risulta determinante per stabilire la quota di beni a cui apporre i sigilli. 

Successivamente nel processo d’appello vengono riconosciuti altri elementi di colpevolezza in relazione all’espansione degli ipermercati di proprietà dell’imprenditore puntese nella Sicilia occidentale che, secondo la tesi dell’accusa, sarebbe avvenuto a braccetto con i padrini della mafia palermitana Bernardo ProvenzanoSandro e Salvatore Lo Piccolo. Da qui la condanna dell’aprile 2013 a 12 anni per associazione mafiosa con relativa estensione della confisca dei beni aziendali. Un nuovo capitolo della lunga vicenda è quello della corte di Cassazione che ha annullato con rinvio la sentenza di secondo grado dopo il ricorso degli avvocati Ziccone e Grasso, sostenuto davanti alla Corte dall’avvocato Franco Coppi – limitatamente però alla parte relativa all’allargamento a Palermo, confermando di fatto le contestazioni sulla vicinanza dell’imprenditore al clan dei Laudani e di altri gruppi alleati. Scuto non sarebbe stato vittima della mafia e costretto a pagare le estorsioni ma ha «finanziato Cosa nostra in cambio di protezione – si legge nella sentenza – riciclando tramite le sue aziende i proventi delle attività illecite dei Laudani». 

Attualmente in appello, davanti al presidente Salvatore Costa, è in corso un altro filone processuale relativo alle misure di prevenzione patrimoniali che riguardano altre parti dell’immenso patrimonio personale intestato all’imprenditore, alla moglie Rita Spina, ai figli e ai coniugi di questi. Secondo l’accusa, negli anni, sarebbero state messe in atto «operazioni di ingegneria societaria con giochi di prestigio come alcune società in Lussemburgo». 


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