A proposito del 3+2, pubblichiamo un intervento del professor Schillaci, docente della Facoltà di Agraria. «Quei numeri sembrano la metafora di un conto alla rovescia. Diciamo dunque che il sistema può essere corretto nei contenuti. Già ora» -'3+2, perseverare diabolicum'-Luciano Modica (Pd): Ecco la nostra risposta alla Gelmini
Se nessuno grida che il re è nudo
Con i “soliti” eccessi che mi contraddistinguono quando prendo le difese di qualcuno (degli studenti che si sentono ingannati e dei docenti che si fanno in quattro per rispondere alle esigenze della didattica e della ricerca nel bailamme generale di una Università liceizzata) tempo fa ho scritto una lettera alla mlist del mio gruppo scientifico-disciplinare (AGR09) nella quale definivo il 3 + 2 una “truffa legalizzata”. Poi mi pento, ma solo quando espressioni del genere vengono poi utilizzate fuori dal contesto. Altrimenti… non me ne pento affatto! Anche perché mi sono trovato, per combinazione di età, a laurearmi con il corso quadriennale, subito dopo ad occuparmi del quinquennale e ad insegnare nei DU (che meriterebbero un altro discorso, ma lasciamo perdere) e poi infilato (scusare l’espressione, non so se la condividete o meno) in questo 3 + 2 di padri certi che, però, non riesco a capire che sensazione potessero provare durante il concepimento.
Inutile dire, a proposito di quel mio “eccesso”, che nessuno rispose in mlist. Ma, tanti, al mio indirizzo privato. E hanno fatto bene, lo dico senza ironia, perché non serve al momento fare diversamente, non serve compromettere un intero settore, per ora – forse – può essere sufficiente fare parlare qualche voce fuori dal coro.
Capiamoci, gli intenti della riforma possono essere condivisi (tanto non c’è provvedimento che affermi di voler il male di qualcuno). Certamente, il monitoraggio e l’etica del miglioramento continuo – cosa questa che per la verità non scaturisce direttamente, ma è frutto di una elaborazione a mio avviso “naturale” dei meccanismi connessi a CampusOne – non possono che essere condivisi.
Né possiamo e dobbiamo dimenticare che la riforma prevedeva (almeno nella citata esperienza di Campus) la pianificazione dei corsi di Laurea mediante confronto con le parti interessate. Questa, peraltro, è una storia che si ripete nel recente provvedimento sulla trasparenza e sulla quale prima o poi – credo – dovremo tornare tutti. Prevedeva – e si prevede ora – la valutazione in ragione dell’occupazione dei laureati (al temine del biennio… ovviamente!). Insomma, si volevano corsi di Laurea non campati per aria, almeno in linea di principio, come se l’Università non avesse poi le armi per imporre al Territorio – come è stato – ciò che fa più comodo; ma questa è (quasi) un’altra storia.
La questione, infatti, non sta negli enunciati, sta nel come. E come hanno scritto molto meglio di me, l’idea di conciliare un percorso triennale iniziale con esigenze contrastanti di una formazione improntata al lavoro e di una preparazione di base per la specializzazione successiva, è roba da non credere. E che, infatti, non si riesce a fare (ma si voleva fare?). E che, infatti, “funziona” solo ove si distrugge il suo fondamento: se Fisioterapia e altre lauree triennali mediche vanno alla grande – credo di poter dire senza essere uno specialista in materia – è perché hanno utilità autonoma e non consentono il confluire nel corso “principale”.
Possibile che al momento giusto nessun bambino ebbe voglia di gridare che il re è nudo? Certo che è ben possibile, per la ragione che bambini qui non ne sono rimasti, e queste sono le circostanze nelle quali divenire adulti disincantati – come sappiamo – ponga le premesse per peccare gravemente…
Andiamo ai “numeri”, che non a tutti piacciono: vanno a lavorare i nostri triennali? (dico i “nostri” e qui contestualizzo, non mi sento di farne una legge generale, anche se…). Risposta: no, per niente. Allora torniamo al “come”: di conseguenza, è lecito cambiare qualcosa tenendo conto che tutti proseguono? Certamente, si deve. Come? Tenendo in vista gli obiettivi dello studente. Perché? Perché è colui – nostri figli compresi – che dal giorno dopo la Laurea sospirata dovrà guadagnarsi il pane, mantenere la famiglia, comprarsi la casa, mandare a studiare i suoi figli – e vivere realizzato e realizzando la sua cultura e il suo sapere – proprio in base a ciò che noi sapremo dargli durante gli studi universitari. Non per altro.
Non posso fare a meno di pensare che il «… 3… 2…» è la metafora di un conto alla “rovescia”, poiché in fondo può apparire l’esatto contrario di ciò che si faceva una volta: tre anni – più o meno – di studi molto simili, un biennio in cui i curricula si divaricavano in relazione ai propri interessi.
Ora si fanno tre anni molto diversi a seconda del corso di laurea e poi si pretende – visto che a lavorare non si va – di riunire tutto e tutti in corsi biennali irrangiungibili, per impossibilità di riconoscere i CFU, o improponibili. Alla rovescia, appunto. Se non altro, dice qualcuno, con i corsi si è ottenuta la moltiplicazione delle cattedre, in un mondo come quello nostro dove per agire in via diretta non vi è né la forza né – qualche volta – la volontà. Pane, pesci e cattedre, si direbbe. E ha funzionato.
Tutto male, allora? Niente affatto. Come tanti, penso che nel caos del peggio si trova il meglio, anche se bisogna almeno chinarsi a terra per raccoglierlo.
Penso alla cultura della qualità che adesso si va diffondendo (anche se molto si deve all’imposizione esterna e alla minaccia di ulteriori tagli dei finanziamenti).
Penso che un dibattito sincero – che prima mancava o non appariva a sufficienza – non può che produrre soluzioni di alto livello (del resto, se questo non accade all’Università, dove potrebbe mai accadere?).
Penso ai Corsi fuori sede, ove i Consorzi Universitari divengano “maggiorenni” e dunque consci del proprio ruolo e padroni dei metodi, e ove l’Ateneo rinunci a battaglie di retroguardia, qualche volta necessarie per le confusioni connesse alla “minore età” dei Consorzi.
Penso che qui, ove si prenda coraggio e si incontrino, insieme, le parti interessate (vedi sopra!), si spieghi loro cosa può – e deve – fare l’Università nel loro territorio, le risorse per corsi di alta qualità potranno essere approntate più facilmente – meno difficilmente – che altrove.
Penso, insomma, che proprio le sedi decentrate possano dare all’Università e ad un Ateneo come quello di Catania, sommerso da studenti che ne mettono in crisi le strutture e le amministrazioni, soluzioni e prospettive sino ora inimmaginabili a causa di una forte sottovalutazione dei reciproci ruoli.
Diciamo allora che il 3 + 2 può essere corretto nei contenuti già ora, ottemperando ai vincoli degli ultimi provvedimenti, in attesa di tempi migliori (quali? ne parliamo un’altra volta, mi pare già un miracolo se qualche paziente lettore è arrivato sino a qui).
Non rileggo, condonatemi espressioni accese, in fondo una news come questa deve servire ad “accendere gli animi” sui temi di attualità, le riposanti risposte abbondano nei documenti e negli incontri ufficiali.