Se intercettare è reato

«Un magistrato senza intercettazioni è come un medico senza tac: batte sulla schiena del paziente e fa dire “trentatre”. Così il cancro non lo becchi». Gianni Barbacetto, giornalista de Il fatto Quotidiano e presidente di Omicron (Osservatorio Milanese sulla Criminalità Organizzata al Nord) si affida a una similitudine medica per esprimere il suo giudizio sul disegno di legge sulle intercettazioni, approvato alle tre di stamattina dalla Commissione Giustizia del Senato. Barbacetto ne ha discusso ieri con gli studenti di giornalismo dell’Università Statale di Milano.

Il provvedimento contestato e controverso (contro di esso si sono schierati sindacati della stampa, direttori di testata, giornalisti del calibro di Roberto Saviano e Milena Gabanelli) coinvolge la magistratura ma anche, e soprattutto, il mondo dell’informazione. Una norma su cui l’opinione pubblica si divide e dibatte, con molti dubbi e qualche pregiudizio. Nella lettura proposta da Barbacetto c’è soprattutto un po’ di storia di uno strumento più chiacchierato che conosciuto. «L’Italia è un paese ad alto tasso di intrusione nella vita privata», dice. Intercettazioni telefoniche, ambientali e visuali. Ma non solo: c’è il mondo sommerso delle registrazioni illecite, di cui poco o nulla si sa.

Le prime, regolate dalla legge e autorizzate da un giudice, «non valgono, come si sente dire, per chiunque, per qualunque tipo di reato e per un tempo indefinito» precisa Barbacetto. Nessun Grande Fratello, insomma. In Italia la maggior parte delle registrazioni sono rivolte a protagonisti di reati di mafia e, in minor misura, di terrorismo. E’ stato il caso dei “furbetti del quartierino” a far inaugurare l’uso delle intercettazioni per reati diversi, come quelli finanziari. Era l’estate del 2005, Stefano Ricucci tentava la scalata al gruppo editoriale Rcs, Gianpiero Fiorani e Giovanni Consorte rispettivamente alle banche Antonveneta e Bnl. «Loro parlavano liberamente al telefono, non si aspettavano di essere intercettati. Peccato che l’Italia avesse recepito qualche mese prima una direttiva europea che permetteva le intercettazioni anche in caso di reati di market abuse» spiega il giornalista.

Mafiosi, terroristi e furbetti vari controllati dalla legge. Ma anche semplici cittadini nel mondo delle intercettazioni illecite: «Sono quelle di cui non sappiamo nulla, a meno che non scoppi uno scandalo». E’ il settore delle imprese di security, cresciuto negli ultimi anni, e dei servizi segreti. Alle volte insieme. «La storia d’Italia è sempre a due livelli: uno visibile, che più o meno conosciamo, e uno invisibile». A Barbacetto basta un esempio per rendere l’idea: le schedature dei servizi segreti militari italiani – all’epoca Sifar, adesso Aise – nel biennio ’59-’60. 157mila dossier su altrettanti cittadini italiani. Tra questi, 34mila sono poi stati dichiarati illegali dalla Commissione parlamentare d’inchiesta.

Ma la battaglia è sui numeri e sul presunto abuso che la magistratura farebbe di questo strumento d’indagine. Secondo il guardasigilli Angelino Alfano, in Italia vengono approvate 3 milioni di richieste di intercettazione all’anno. «I dati ufficiali parlano però di 125 mila registrazioni nel 2007, molto differente», precisa Barbacetto. Un numero che a prima vista potrebbe apparire comunque enorme, ma che va scomposto. «Per intercettare qualcuno bisogna fare almeno 20 o 30 richieste. E’ chiaro che questo sballa il risultato finale» spiega. Ogni richiesta approvata dal giudice vale per un solo numero di telefono. La polizia giudiziaria deve poi inoltrarla a tutte le compagnie telefoniche, in Italia almeno quattro. «Luciano Moggi aveva una decina di numeri di telefono e i mafiosi usano schede estere usa e getta» aggiunge Barbacetto. Con due moltiplicazioni, il numero di intercettati si riduce di molto.

Ci sono poi i costi delle registrazioni, dichiarati spesso eccessivi e che il disegno di legge vorrebbe tagliare. Gianni Barbacetto racconta di un balletto di cifre: dai 3,85 euro al giorno necessari a Campobasso ai 27 euro di Lodi. Ancora più variabile è il prezzo dell’istallazione di microspie nelle stanze o nelle macchine: 19 euro a Roma, 195 euro a Catania. In totale, sempre secondo Alfano, il governo spende un miliardo all’anno. «Una cifra ancora una volta smentita dai dati del ministero della Giustizia», continua il giornalista, «Anzi, i costi risultano in calo: dai 286 milioni di euro nel 2005 ai 224 milioni del 2007. E si tratta di voci di bilancio che non comprendono solo i costi delle intercettazioni». Spese che il ministero non riesce già a coprire. Molte delle aziende private fornitrici di macchine e software per le registrazioni sono in crisi, perché lo Stato paga in ritardo. E sì che, secondo la legge, le intercettazioni andrebbero svolte nelle apposite sale nei palazzi di giustizia. Ma la mancanza di mezzi e uomini costringe gli inquirenti a rivolgersi a terzi.

«La lente di Sherlock Holmes non serve per reati che si compiono con un click sul computer» commenta Barbacetto. Come dire che il ritorno ai tradizionali metodi di indagine, consigliato dalla maggioranza che ha proposto il ddl, non potrà mai contrastare reati come lo spostamento di capitali da un continente all’altro, ad esempio. Sempre secondo il disegno di legge, poi, le intercettazioni saranno ammesse solo nei luoghi in cui si prevede che venga compiuto il reato. «Non si potrà quindi intercettare i parenti di un sequestrato, ad esempio, perché sono le vittime, non commettono reati. Eppure è a loro che il sequestratore chiamerà». Stesso discorso vale per le estorsioni o per i latitanti. Bernardo Provenzano così non sarebbe mai stato arrestato. Gli investigatori non avrebbero potuto seguire il filo dei panni puliti portati dai familiari al suo covo. «Con il ddl sarebbe stato come intercettare una casa rispettabilissima dove una mamma si fa i fatti suoi».

Un limite giudiziario a cui va ad aggiungersi un limite giornalistico. E’ la questione della privacy, vero cavallo di battaglia della maggioranza, stufa di vedere pubblicate sui giornali le intercettazioni di uomini politici e non solo. «Il diritto alla privacy è sacrosanto e va garantito», specifica Barbacetto, «Ma il diritto di cronaca deve prevalere se una persona ha deciso di avere un ruolo pubblico». I politici, ad esempio. Ai giornalisti basterebbe un codice di autoregolamentazione, per escludere dalle pagine dei giornali o dalle edizioni di tg e gr tutto quello che non è di interesse pubblico.

Secondo Barbacetto, un provvedimento come quello approvato dalla Camera non è giustificato nemmeno dalla paura di una deriva giustizialista dei professionisti dell’informazione. «Proprio perché i giornalisti siamo altro dai giudici possiamo fare un uso non giudiziario delle carte che lo sono. Ci interessano le notizie per informare il nostro pubblico. Se si tratta di reati o no, non ci riguarda». Eppure, da giornalista, conclude prendendo in prestito le parole di Piercamillo Davigo, magistrato del pool di Mani Pulite: «La privacy non si protegge non facendo sapere che hai rubato, ma non rubando».


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«E’ come tornare alla lente di Sherlock Holmes. Chi ha deciso di avere una vita pubblica deve accettare che si eserciti il diritto di cronaca». Gianni Barbacetto, giornalista de Il fatto Quotidiano e presidente dell’Osservatorio Milanese sulla Criminalità Organizzata al Nord discute con gli studenti di giornalismo dell’Università Statale di Milano del disegno di legge voluto dal Governo Berlusconi e delle sue conseguenze

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