«Iniziò a collaborare in presenza di uno stato di necessità». Questa la tesi sostenuta dall’avvocato Calogero Montante nell’appello depositato giovedì a Caltanissetta contro la sentenza del Borsellino quater, che di fatto il 20 aprile 2017 salvò uno dei protagonisti dei depistaggi sulla strage di via D’Amelio
Scarantino, la difesa contro i motivi del proscioglimento «Assolverlo non per prescrizione, fu costretto a mentire»
«Un soggetto psicologicamente debole». È così che i giudici hanno definito Vincenzo Scarantino, il finto pentito della strage di via D’Amelio. Ed è su questo che punta l’avvocato Calogero Montante nell’appello depositato pochi giorni fa contro la sentenza del Borsellino quater emessa ad aprile dell’anno scorso dalla corte d’assise di Caltanissetta, dopo undici ore di camera di consiglio, con cui l’iniziale reato contestato di calunnia aggravata viene derubricato in quello di calunnia semplice. Decisione che ha comportato il proscioglimento per prescrizione del reato. «Il percorso logico argomentativo seguito dalla corte d’assise di Caltanissetta appare condivisibile solo fino a un certo punto», scrive il legale, che avrebbe dovuto presentarsi dinanzi alla Commissione Antimafia Regionale giovedì scorso, ma che ha «declinato l’invito perché l’assistito ha opposto il suo veto».
«La corte – si legge nell’atto di appello -, non ha tenuto conto del fatto che è proprio in virtù di quella stessa pervicace opera di pressione e di indottrinamento esercitata nei suoi confronti dagli inquirenti, pur riconosciuta come base argomentativa dell’attenuante dell’induzione, che Scarantino venne costretto a dare inizio alla falsa collaborazione». Pressioni, a leggere il resoconto messo nero su bianco dall’avvocato Montante, che partono già dall’arresto del finto pentito, cioè dal settembre del 1992, dopo le accuse mosse contro di lui da Salvatore Candura. E dalle pressioni esercitate anche da Vincenzo Pipino, all’epoca detenuto a Regina Coeli. È qui che Arnaldo La Barbera lo avrebbe ingaggiato per carpire informazioni a Scarantino riguardo al suo ruolo nella strage del 19 luglio, ordinando il suo trasferimento temporaneo nel carcere di Venezia dove Scarantino era detenuto in un’ala completamente deserta della struttura. «Pipino comprende subito che Scarantino non aveva avuto alcun ruolo nella strage – si legge nel dispositivo -, anche perché piangeva in continuazione dicendo che lui con il furto della 126 non c’entrava (furto che si è invece recentemente attribuito Gaspare Spatuzza, ndr), così mostrando uno spiccato grado di suggestionabilità».
Sembra infatti che il detenuto abbia esplicitamente detto a La Barbera di «girare la testa da un’altra parte, perché Scarantino era innocente», ma per tutta risposta l’ex dirigente avrebbe risposto di «non confidare a nessuno queste sue impressioni». Pipino avrebbe anche intuito che il compagno di cella avesse capito benissimo che lui aveva il preciso ruolo di farlo parlare. «Tale consapevolezza, unita a quella di essere stato tratto in arresto per crimini mai commessi, avrebbero potuto far cadere chiunque in preda al panico – scrive l’avvocato Montante -, a maggior ragione soggetti dalla debole personalità come lui». Dopo Venezia, Scarantino viene tenuto in isolamento a Busto Arsizio: è in quel periodo che viene raggiunto dalla condanna a nove anni per traffico di droga, basata sulle accuse del collaboratore di giustizia Salvatore Augello, secondo la difesa un’altra pedina mossa da La Barbera. Una condanna che forse serviva «a nobilitare il curriculum delinquenziale di Scarantino, rendendo le sue future dichiarazioni accusatorie più credibili», si ipotizza nell’appello.
È sempre a Busto Arsizio che Scarantino incontra Francesco Andriotta, detenuto in una cella contigua, che rivelerà in seguito agli inquirenti «alcune notizie a suo dire apprese dallo stesso Scarantino sulla sua presunta partecipazione alla strage e al coinvolgimento di altri soggetti», dopo aver subito anche lui pressioni e minacce velate. E poi c’è Pianosa, dove Scarantino rimane dalla fine del ’93 al giugno del ’94: «Se per convincerlo a collaborare – scrive l’avvocato -, non era bastata la minaccia di pesanti condanne o le false dichiarazioni accusatorie di Andriotta, qui gli inquirenti decidono di passare alle minacce più esplicite e alle violenze». Si tratta di «pestaggi, pipì nella minestra, vermi nel cibo», nel tentativo di indurlo a collaborare. Torture riferite anche da diversi pentiti, a cominciare da Gaspare Spatuzza e da Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Carlo Greco. Un calvario, a leggere quanto ripercorre il legale, durato quasi due anni che lo avrebbe anche portato a perdere oltre 27 chili. Alla fine è il 24 giugno del ’94 quando Scarantino cede alla collaborazione.
Insomma, per la difesa è chiaro che «Scarantino decide di iniziare a collaborare in presenza di uno stato di necessità – scrive Montante -. Illegittimamente tratto in arresto e altrettanto illegittimamente detenuto in regime di carcere duro per un reato mai commesso, le pressanti e sempre più incalzanti minacce e vessazioni subite annullano ogni sua capacità di resistenza al patto scellerato proposto dagli inquirenti». Uno stato, quello del finto pentito, di totale assoggettamento psicologico, che sarebbe continuato anche dopo la scelta di collaborare per dissuaderlo dall’idea, più volte manifestata, di ritrattare tutto. Come fa pubblicamente nell’intervista ad Angelo Mangano il 25 luglio ’95. Ma l’opera di indottrinamento doveva proseguire. «È innegabile come Scarantino si sia determinato a calunniare in una condizione di illegittima privazione della libertà personale – riporta l’appello -, che tale condizione era resa ancor più esacerbante dal lungo isolamento e dal regime di carcere duro cui lo stesso veniva sottoposto e, circostanza ancor più vergognosa, dalle continue e illecite pressioni esercitate nei suoi confronti dagli inquirenti».