“Salvo”: claustrofilo film sulla mafia

di Gabriele Bonafede

Non ditemi che non è un film sulla mafia. Se non lo fosse, non avrebbe senso. È decisamente un film sulla mafia, e lo è in maniera fortemente innovativa perché immerge perfettamente nel mondo cieco, senza via d’uscita, senza speranza, e votato alla sconfitta tramite l’annullamento della vita, di quella media manovalanza di mafia principalmente impegnata nel racket e nell’esecuzione sanguinaria degli ordini dei boss. Descrive il pozzo senza fondo della vita di un killer, anche se lo fa con una lunga serie di forzature.

Saleh Bakri e Mario Pupella in una scena del film “Salvo”.

La prima forzatura, la più evidente, è la scelta dell’attore protagonista: manifestamente non siciliano. Solo in non-siciliani, in primis i francesi, possono scambiare l’attore protagonista, dai tratti e i movimenti dichiaratamente mediorientali, per un siciliano. E se non fosse abbastanza, le poche battute che proferisce Saleh Bakri in un’ora e mezza di film, tradiscono una padronanza quasi nulla dell’italiano, e meno che nulla del siciliano.

Se la volontà era d’avere una specie di Schwarzenegger mediterraneo inespressivo e legnoso, allora la scelta è perfetta. Se era quella di rappresentare un killer come alieno alla cultura siciliana, scelta oltremodo giusta e coraggiosa, è anch’essa perfetta. Corpo staccato dall’”onorata società”, l’alieno-Salvo è reso ancor più alieno dall’estrema, quasi caricaturale, sicilianità dei suoi “colleghi” killer, amici o nemici, e dagli altri attori non protagonisti. Salvo è un antieroe paracadutato da Marte su una Palermo che non se lo aspetta nemmeno un poco.

La seconda forzatura è la scelta dell’attrice protagonista. Anche lei dai modi, i movimenti, l’accento, tutto fuorché siciliani, e non solo nella parte in cui interpreta una persona cieca, ma soprattutto quando riacquista la vista e si propone con un comportamento lontano dagli schemi e dalle aspettative di una ragazzina che vive di mafia insieme al fratello. La Serraiocco, sia pure con questi limiti, interpreta Rita in maniera eccellente, pur essendo messa in grandi difficoltà per alcune scene.

La terza forzatura è la scena-madre del film. Splendida nella tecnica, stupenda nei suoni e nella fotografia, ben interpretata dall’attrice Sara Serraiocco, ma con un errore di fondo, forse voluto: una persona non vedente si accorge della presenza di un uomo sudato nella propria casa dopo meno di un secondo. Dall’odore. E invece nel film passano quindici lunghissimi minuti in piano-sequenza prima che la protagonista Rita si renda conto, sempre a causa dell’odore, che Salvo vaga a pochi metri da lei nella sua stanza calda e chiusa, in cerca del fratello per ucciderlo. Troppo evidente e troppo assurdo per non essere un qualcosa di voluto da parte dei registi.

Anche questo, lo consideriamo dunque come un chiaro messaggio da parte degli autori: Rita, la protagonista, è una non vedente particolare, che appartiene a una famiglia di mafia, con il fratello braccato in una guerra di mafia. Conta molti soldi, fa forse da cassiera insospettabile ed è quindi cieca, e non non-vedente: cieca financo nelle sensazioni, anche quelle proprie dei non-vedenti o di chiunque. E la sua cecità “totale” non le permette, per lungo tempo, di  sentire gli odori che chiunque sentirebbe anche con il naso tappato.

Sara Serraiocco in una scena del film “Salvo”.

È dunque una forzatura evidente, ma una forzatura creativa che, come quasi tutto il film, immerge nella brutalità e nella cecità sensoriale del fenomeno mafioso.

Quarta forzatura, sempre creativa, è la sensazione di claustrofobia estrema quasi continua per tutto il film e amplificata dalla presenza di suoni liberi a tutto andare provenienti da fuori. Per tutta la durata del film, anche nelle scene esterne, si è dentro un luogo chiuso da una cappa: la cappa della cupola mafiosa, onnisciente, onnipresente, che guarda e scruta molto più di un “grande fratello”, tutti i movimenti e tutti i sentimenti. Non si può fuggire in alcun modo e questo è reso in maniera quasi maniacale nel film, esaltando le doti tecniche dei due registi, che sembrano quasi innamorarsi della loro stessa abilità, come s’innamora del proprio colore e della propria pennellata il pittore alla sua prima opera realmente riuscita.

Per tanto, il film non può piacere a chi non ama i lunghi silenzi e la sensazione d’angoscia, al limite del genere-horror. Ma sarà amato ed esaltato da chi invece apprezza la crudezza e l’introspezione di un film quasi esclusivamente fisico e al limite del “muto”.

In ogni modo, spero che nessuno abbia la malsana idea di portare i propri figli a vedere questo film se i pargoli non abbiano almeno quattordici anni. La scena dell’omicidio del fratello di Rita, infatti, è magistrale e raccapricciante al tempo stesso, perché Rita (e lo spettatore attraverso lei),  la “vede” attraverso gli orribili suoni della morte violenta, e che non si capisce nemmeno se sia avvenuta per strangolamento o per sbudellamento, a coltellate, a martellate o altro… Uno shock che giustifica qualsiasi “miracolo”, qualsiasi reazione, positiva o negativa che sia.

I particolari angoscianti sono numerosi e sempre toccanti, volutamente forieri di sensazioni negative e disgustose ma che, a causa anche di silenzi dalle lunghezze siderali per un film, sconfinano a volte nella noia, complice l’utilizzo estremamente parsimonioso della colonna sonora, al contrario del suono di fondo profuso a tutto andare. Se ne ha un effetto da “lungo cortometraggio” anche a causa di una sceneggiatura  ridotta all’osso e che vive del contrasto tra “interno” ed “esterno”, tra trappola generatrice di claustrofobia e profondo desiderio di libertà.

E il contrasto tra silenzio oppressivo, claustrofobia morale e ambientale da un lato, e libertà dall’altro, è sbalzato dalla presenza di due personaggi, rappresentati da una coppia d’attori tanto inedita quanto spettacolare, che ospitano il killer nella sua latitanza.

Sono una coppia di poveracci, economicamente e spiritualmente modesti, che però mostrano un volto in qualche modo libero dagli schemi: quello della Sicilia quasi-normale, che deve fare i conti con la presenza mafiosa anche se non vuole. Gli attori sono Giuditta Perriera e Luigi Lo Cascio (quest’ultimo fisicamente quasi irriconoscibile, ma riconoscibilissimo nella sua maestria) che da soli rompono lo schema del circuito chiuso omicidio-dopo-omicidio del protagonista. Trovate eccellenti nei ciak dedicati a loro, così come nelle apparizioni di un maestro dell’acting siciliano, Mario Pupella, che conferisce tutta la credibilità del genere che manca all’attore protagonista.

L’attrice siciliana Giuditta Perriera

È Pupella che regala, in pochissime scene, la vera credibilità al film. Perché è lui che rappresenta “il grande fratello mafioso” che governa in tutto e per tutto la cecità mortuaria del ciclo violento senza fine, frutto inevitabile dell’aberrante “logica” mafiosa.

Film  pessimista e claustrofilo, cioè con la tendenza morbosa a indugiare in luoghi chiusi e appartati, dipinge in maniera quasi caricaturale la Sicilia. Tuttavia rappresenta un’interessante innovazione nell’ambito della ricerca sui film che parlano di mafia.

 

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