«Ci sono dei limiti evidenti nella formulazione del capo d’imputazione». Con queste parole la sostituta procuratrice generale Sabrina Gambino conclude la sua requisitoria del processo d’appello sul presunto controllo della mafia sui festeggiamenti di Sant’Agata. Per gli otto imputati l’accusa sceglie di non sostenere il ricorso del pm Antonino Fanara, chiedendo invece la conferma del giudizio di primo grado. Un processo quest’ultimo, concluso nel febbraio 2013, in cui Antonino e Francesco Santapaola, Alfio, Giuseppe, Vincenzo e Agatino Mangion e con loro Pietro Diolosà e Salvatore Copia sono tutti stati assolti «perché il fatto non sussiste». In quel caso il pm Antonino Fanara chiedeva la condanna di concorso esterno in associazione mafiosa per Pietro Diolosà, ex presidente del circolo sant’Agata della Collegiata, e il proscioglimento per gli altri imputati, perché le loro posizioni erano già state giudicate nel processo scaturito dall’operazione antimafia Dionisio.
Il giudice Michele Fichera aveva motivato la sua scelta con l’assenza di prove che potessero «supportare una sentenza diversa da quella pronunciata». Sugli imputati, dopo un processo con decine di udienze, numerosi testimoni tra cui diversi collaboratori di giustizia, ci sarebbero stati «solo vaghi sospetti, labili indizi, congetture, ipotesi e personali interpretazioni dei fatti». Nessuna prova certa, sempre secondo il giudice, sul «governo» della tempistica dei festeggiamenti, ossia soste del fercolo e fuochi pirotecnici, dell’incidenza sul commercio ambulante e nella vendita e rivendita della cera.
Tutti elementi che avrebbero dovuto provare l’esistenza di una sorta di para-mafia, dedicata nello specifico al controllo della festa, ma comunque legata all’organizzazione criminale cittadina. Un passaggio non troppo chiaro, secondo il giudice di primo grado e, adesso, anche secondo la stessa accusa in Appello, condotta dalla sostituta pg Gambino. Al capo d’imputazione principale, infatti, si contesta «di aver fatto parte di una associazione mafiosa avvalendosi dell’appartenenza o vicinanza ai Santapaola-Ercolano, finalizzata ad ottenere il controllo di fatto nella gestione dell’associazione cattolica del circolo di Sant’Agata».
Finora ad avvolgere nell’ombra la gestione delle celebrazioni agatine erano state, come accennato, sopratutto le rivelazioni di numerosi collaboratori di giustizia. A metà degli anni ’90 Ceusi, Savasta, Cappello e Santapaola, secondo il pentito Natale Di Raimondo, si sarebbero spartiti la gestione delle candelore. I pesanti ceri in legno lavorati in stile barocco che rappresentano le corporazioni di arti e mestieri. Nel 1998, la candelora del circolo di Sant’Agata si sarebbe spinta fino al quartiere periferico di Monte Po con «una spesa di circa 30-40 milioni di lire. Con tale somma – raccontava nel 2012 in udienza Di Raimondo – vennero pagati i portatori, l’illuminazione del quartiere e i fuochi di artificio».
Gli imputati, come testimoniato anche da alcuni scatti fotografici, presenziarono anche in alcuni dei momenti principali della festa. Dal trasporto delle cosiddetta varetta all’interno della cattedrale affidato a Nino e Francesco Santapaola, fino alla presenza di Enzo Mangion sul fercolo della patrona. C’è poi la vicenda del circolo sant’Agata, il più vecchio di Catania, fondato nel 1874 e gestito dal 1999 al 2005 da Diolosà. A possedere la tessera numero uno, fino al 2005, è stato Nino Santapaola insieme a un’altro parente, Enzo Mangion, titolare della tessera numero due.
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