Soffriva di claustrofobia, Rita Borsellino. Suo fratello ha cercato di tenerlo nelle vite quotidiane di tutti. Con la Carovana Antimafie ha seminato e visto crescere i primi frutti ancora acerbi. Ma siamo certi che matureranno
Rita e la paura dei luoghi chiusi Le nostre porte resteranno aperte
Soffriva di claustrofobia, Rita Borsellino. Frequentava mal volentieri i luoghi chiusi, ancora meno le menti chiuse. L’ho incontrata al liceo, nei primi anni Duemila. Ci ha raccontato di suo fratello Paolo, ce lo ha reso umano, buffo, ironico, a volte sfrigiuso. Lontano dalle alte cerimonie ufficiali e dalle onorificenze di Stato, insomma, uno di noi. Un padre di famiglia che cercava la verità e che è stato ucciso per questo. Niente eroi, niente fronzoli, niente piedistalli a tenere quell’uomo lontano dalla gente per cui si era fatto ammazzare. Era il dono più grande che potesse fare a suo fratello e a tutti noi, non relegarlo nell’irraggiungibile Ade, tenerlo invece nelle nostre vite quotidiane, con le sue troppe sigarette e la sua passione per olive e formaggio.
Mi ha presa per mano e mi ha portata in Carovana Antimafie con lei, nel 2005. «Parto per una settimana» ho detto a casa. Sono stata fuori un mese. E poi un altro ancora. Ho condotto uno di quei furgoni, al suo fianco, lungo tutto lo Stivale. Per la tappa sulle mafie internazionali, a Ginevra, in Svizzera, ci toccava attraversare il traforo del Monte Bianco, 13 chilometri nella pancia della montagna, con a bordo lei, claustrofobica, e quelle musicassette usurate che cantavano De André, Bocca di Rosa, La Città Vecchia, Un Giudice, Il Testamento. «Io non so più piangere – diceva a sua figlia – ma tu piangi finché sei capace, tira fuori tutto quello che hai dentro».
È stata un raggio di luce nella vita di tutti noi, ragazzini cresciuti all’ombra della «candidata governante», come si definiva nel 2006 in campagna elettorale. Non si candidava per governare, si candidava per servire, dunque governante – diceva – era la definizione perfetta. Come Felicia Impastato, ha aperto la porta di casa sua all’indomani del 19 luglio del 92 e non l’ha più chiusa. Più di chiunque altro, però, ha insegnato a ciascuno di noi a non chiudere porte. O porti.
Ci ha insegnato a non fermarci quando la vita non è come ce l’eravamo aspettata, quando i ponti crollano e non restano che macerie. Ci ha insegnato a mostrarci, anche nelle macerie, perché non c’è niente di più pericoloso che chiudere le porte. Ma ci ha insegnato anche a non aprirle a tutti, quelle porte, ci ha insegnato che gentilezza non è sinonimo di buonismo. Che se Silvio Berlusconi suona alla porta di Rita Borsellino, Rita Borsellino non apre. Ci ha presi per mano e ci ha raccontato che le terre depredate dalla mafia possono ancora essere coltivate. E possono produrre dei pomodori buonissimi.
Ci ha insegnato che la memoria è vita. E che non possiamo arrivare molto lontano, se non sappiamo da dove siamo venuti. Ha preso una lapa, un lambrettino, e lo ha riempito di libri, perché la cultura è un valore soltanto quando condiviso. Te ne sei andata in un giorno d’agosto, mentre pioveva, mamma Rita. Te ne sei andata tra ponti crollati e porti chiusi. Eppure nel tuo volto c’è la serenità di chi ha seminato bene e di chi ha visto crescere i frutti. Sono ancora acerbi. Ma siamo certi che matureranno.