Reza Deghati: «Librino sarà internazionale»

Ogni volta che capita di passare del tempo presso Casa Stesicorea, casa museo e sede della Fondazione Fiumara D’Arte, ci si ritrova con sommo piacere a parlare con persone di grande spessore culturale, ad esempio Reza Deghati, celebre fotografo che ha al suo attivo ben quaranta copertine del National Geographic. A otto mesi dalla sua prima visita a Catania, Reza è tornato nuovamente, un paio di settimane fa, per avviare i lavori di un progetto visionario che lo vedrà protagonista e realizzatore per il quartiere di Librino, e ancor più per la gente di Librino, di una grande opera con tema la fotografia. Si stanno gettando ora le basi del percorso che porterà alla realizzazione del progetto ideato da Antonio Presti e a lui affidato.

Reza, che impressione hai avuto nell’osservare la Porta della Bellezza, realizzata nel quartiere di Librino e inaugurata lo scorso maggio?
«Credo che le cose belle del mondo siano fatte da quelle persone che credono nei loro sogni anche se questi sogni sono grandissimi e le opere titaniche… Credo che quello che Antonio fa sia una maniera, seppure modesta, di realizzare questi sogni».

Cosa vorresti regalare, della tua esperienza, ai bambini di Librino? Qual è il tuo sogno?
«Quello che vorrei è che i bambini di Librino divenissero i pionieri di un progetto sul quale lavoro da almeno due o tre decenni e che riguarda questi quartieri e queste zone di periferia, in cui le persone hanno bisogno di cambiamenti, perché ci sono delle spaccature sociali profonde. Credo che questi cambiamenti possano portare un beneficio importante».

Cosa hai notato guardando i bambini del quartiere negli occhi?
«Io guardo sempre la gente negli occhi. Sono stato a Librino con Antonio. Avevamo un gruppo di persone e bambini intorno. Lui spiegava il progetto e nei loro occhi ho visto solo contentezza, perché si capiva che percepivano e capivano che un certo numero di persone sta lavorando per loro per cambiare il loro tipo di vita».

Uno dei tuoi due figli ti ha seguito nel tuo lavoro. E’ partito con te per un importante viaggio in giro per il mondo orientale…
«In realtà, penso che quel viaggio vada molto aldilà del viaggio in sé. E’ stato un mezzo per mettere l’accento su tanti problemi sociali di oggi, perché essere giornalisti è uno stato d’essere e quindi si viaggia nel mondo intero guardando tutto quello che si vede attraverso la lente della propria professione. L’esperimento sociale che ne è seguito è una risposta al problema occidentale della profonda divisione tra l’attività dei genitori e quella dei figli. Non vi è una negligenza reciproca ma una incomunicabilità tra i due poli, e mi è sembrato che fare un viaggio con mio figlio, stare insieme per due mesi, scendere in una relazione umana con lui, fosse un esempio per superare questa difficoltà. I genitori dovrebbero cercare una soluzione, dovrebbero trovare una nuova maniera per comunicare».

Nel dicembre 2001, sul National Geographic, è apparsa una tua foto, in Afghanistan, insieme al tuo amico Massoud, capo della resistenza anti-talebana ucciso durante una finta intervista con un attacco suicida il 9 settembre 2001. Cos’è l’Afghanistan per Reza?
«La fotografia raffigura me con una macchina fotografica insieme ad altre persone su una specie di zattera spinta da rami rudimentali, barca fatta di pezzi di legno sostenuti a galleggiare da pelli di vacca riempite d’aria. Sono con gli uomini del comandante Massoud e dall’altra parte del fiume ci sono i soldati di Al Queda e dei talebani. Qualche giorno prima, gli uomini di Massoud avevano preso delle postazioni dei talebani e avevo deciso di andare a vedere con l’equipe del National Geographic cosa era successo: avevamo passato una giornata a cavallo per andare a vedere la postazione. Arrivati in cima ad una collina, hanno iniziato a sparare e hanno lanciato una granata. Ero a terra per fare una foto e hanno abbattuto il mio cavallo. Quello che mi è venuto in mente è che questi uomini, questi luoghi, hanno fatto parte di una storia importante dell’Afghanistan, una storia più che millenaria, perché gli uomini di Alessandro Magno avevano attraversato quei luoghi con una barca simile. Io, loro, tutti nella storia di un paese».

Il tuo è un arrivederci. Tornerai a Librino…
«Per quanto mi riguarda, nelle differenti attività che ho svolto ho parlato molto di Librino. La cosa bella per una persona emigrata, come me, è che posso sentirmi a casa in qualsiasi posto. Quando questo progetto sarà diventato internazionale, ed è quello che mi auguro accada, di Librino sentiremo parlare molto».


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