Dovranno restare in carcere il presunto scafista tunisino Mohammed Ali Malek e l’aiutante siriano Mahmud Bikhit. A deciderlo è stato questa mattina il tribunale del riesame che ha confermato per entrambi le misure cautelari. Nonostante sia caduta la contestazione del sequestro di persona, sulla testa dei due uomini pendono a vario titolo i reati di omicidio colposo plurimo, favoreggiamento dell’immigrazione con l’aggravante di aver dato un contributo a un gruppo criminale organizzato con base in Libia e Italia.
La vicenda è quella del naufragio della notte del 18 aprile scorso, quando a largo della Libia dopo la collisione con il mercantile portoghese king jacob, trovarono la morte circa 800 migranti. Dei 28 superstiti – tra cui i due presunti scafisti – 12 sono stati chiamati a testimoniare dai magistrati della procura etnea che si sta occupando delle indagini. 24 invece le vittime accertate che durante quelle giornata sono state trasferite nell’isola di Malta. Cifre che hanno reso il naufragio una delle più grandi tragedie in mare di tutti i tempi.
L’ultimo capitolo di questa vicenda riguarda la scelta del magistrato pugliese di non disporre il recupero nel fondale, a oltre 300 metri di profondità, del peschereccio e dei corpi che giacciono all’interno. «Non è utile alle indagini – ha spiegato Salvi, intervistato ieri sulle pagine del quotidiano La Repubblica – e poiché il recupero comporterebbe spese enormi se lo vuole fare il governo o altri per motivi umanitari va bene». Parole che hanno suscitato la dura presa di posizione di Cristophen Hein, presidente del Cir – centro internazionale Rifugiati – e di Giovanna Di Benedetto di save the Children, secondo cui sono ancora numerosi i familiari che chiedono notizie dei propri cari tramite il numero telefonico messo a disposizione dalla Croce Rossa.
«La procura – si legge in una nota diffusa oggi dagli uffici di piazza Verga – ha posto, sin dal primo momento, al centro del suo impegno la tutela delle vittime del naufragio. Uno dei suoi primi atti e stato quello di aprire un indirizzo di posta elettronica dedicato ai familiari. Questa posta è gestita personalmente da me. Ogni richiesta di informazioni viene da me immediatamente inviata alla polizia giudiziaria che sottopone ai superstiti le foto ricevute. Subito dopo rispondo personalmente a tutti i familiari che hanno chiesto informazioni».
Il nodo è quello del recupero delle vittime che per «per finalità umanitarie non compete all’autorità giudiziaria, mentre alte autorità del governo hanno già manifestato disponibilità in tal senso, che questo ufficio non potrebbe che favorire». Riferimento alle parole di Angelino Alfano. Il ministro dell’Interno, commentando l’intervista di Salvi aveva infatti affermato che «per mandare a giudizio gli scafisti non serve recuperare l’imbarcazione. Ma questo non toglie che il governo possa fare tutte le ricerche che gli competono in quanto governo e non dal punto di vista giudiziario. Sono due aspetti distinti e separati, quindi – ha concluso Alfano – non va strumentalizzata una decisione che è una decisione tecnica».
«Abbiamo ottenuto risultati straordinari – si legge nella parte finale della nota della procura etnea – sia nel punire i colpevoli dell’ignobile traffico che nel concorrere alla tutela dei migranti. Se vi sono differenze di approccio rispetto ad altri uffici è solo nella strada innovativamente aperta dal mio ufficio per affermare la giurisdizione italiana in alto mare e cosi punire i capi del traffico e non solo gli scafisti […]. Sono quindi – conclude – profondamente turbato dal fatto che si sia messa in dubbio la volontà della procura e la mia personale di operare in questa direzione».
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