Renato Panvino, guida silenziosa della Dia etnea «Cosa nostra ha preso delle sberle pesanti»

Renato Panvino è un servitore dello Stato silenzioso. Alle telecamere e ai microfoni, il capo centro della Direzione investigativa antimafia (Dia) di Catania preferisce i risultati delle indagini. Obiettivi, tiene a precisare con orgoglio, che sono «frutto di un lavoro di squadra». Per i suoi uomini ha sempre un pensiero: «Quando fanno il compleanno, lascio un bigliettino d’auguri sulle loro scrivanie». Reggino, figlio di un poliziotto di origine siciliane, per anni ha dato la caccia ai più pericolosi latitanti della ‘ndrangheta. Boss sanguinari tra cui spiccano gli autori della strage di ferragosto a Duisburg in Germania. Nei suoi racconti c’è un sentimento di profondo rispetto per le istituzioni. Nell’agosto del 2008, quando insieme ai suoi uomini mette le manette ai polsi di Antonio Pelle, rifiuta la stretta di mano che il capo della ‘ndrangheta di San Luca gli offre per complimentarsi. Ad accompagnare Panvino nei suoi traslochi di lavoro c’è sempre una foto a cui tiene particolarmente, quella con Natuzza Evolo. Una mistica calabrese, morta nel 2009 in un paesino vicino Mileto, per la quale è stata recentemente aperta la pratica di canonizzazione. 

Com’è stato questo primo anno di lavoro a Catania? 
«Molto impegnativo, per me e per la struttura che ho l’onore di guidare. La Dia di Catania è un baluardo importante in Sicilia, perché è operativa su quattro province che sono quelle di Messina, dove c’è pure una sezione, poi Siracusa, Ragusa e ovviamente Catania. I risultati conseguiti in questo anno nella lotta ai patrimoni illeciti sono sotto gli occhi di tutti». 

Avrà percepito delle differenze nel contrasto a Cosa nostra e nella lotta alla ‘ndrangheta.
«Intanto Catania è molto più grande rispetto a Reggio Calabria, dove ho lavorato per molti anni con ruoli importanti. In questa città ci sono grandi aziende e imprese, non a caso viene definita la Milano del Sud, ed è chiaro che induce anche ad attività di microcriminalità con numeri sicuramente superiori rispetto alla Calabria. Inoltre ci sono organizzazioni mafiose importanti di cui, insieme a Cosa nostra catanese, si sente parlare da anni e ancora oggi. Tutte ben solide ma che, i questi tempi, hanno subito dei colpi ferali sia sotto l’aspetto militare dell’organizzazione che sotto quello patrimoniale, per il principio che amo definire della doppia azione. Questa è la strada giusta per togliere alla mafia il suo atteggiamento prevaricatore sul territorio e irridente nei confronti della legalità che lo Stato cerca ogni giorno di esercitare». 

Ogni clan cerca di riorganizzarsi anche con dei rampolli in famiglia, spesso ben istruiti

Gli storici capi sono tutti in carcere. In compenso si assiste a una sorta di ricambio generazionale affiancato a un costante inabissamento. Questo comporta difficoltà nelle indagini? 
«Le attività investigative rimangono tradizionali, ma è chiaro che le tecnologie migliorano, le forme di reato cambiano e noi dobbiamo modularci attraverso queste novità. Fino a dieci anni fa era impensabile una comunicazione così immediata attraverso i computer o gli smartphone. Per quanto riguarda il cambio generazionale, invece, possiamo dire che ogni clan cerca di riorganizzarsi anche con dei rampolli in famiglia, spesso ben istruiti. Molti capimafia hanno fatto sì che i loro figli diventassero persone colte. In Calabria molti figli dei padrini erano diventati dei medici, come ad esempio i Morabito. Cosa nostra non deve essere più immaginata con il binomio coppola e fucile, ha subito una trasformazione radicale e cerca di annidarsi in tutti i rivoli che la società civile riesce a costruire e produrre».

Catania, secondo la relazione della Direzione nazionale antimafia, è la seconda città in Italia per reati di mafia dopo Napoli. Che lettura dà a questo dato?
«La Procura guidata da Giovanni Salvi e tutte le altre forze di polizia del territorio hanno dato delle risposte evidenti, Cosa nostra ha preso delle sberle pesanti. Sono state scoperte estorsioni, rapine, danneggiamenti. Segnali che implicano una particolare attenzione, certo, ma dall’altro ci sono state anche delle operazioni che hanno portato in carcere numerosi affiliati alla mafia arginando il fenomeno o perlomeno contenendolo».

Un ruolo chiave della Dia è quello legato alle misure di sequestro. C’è un numero preciso che può fornire? 
«Sono stati tantissimi. È ovvio che noi puntiamo a quelle organizzazioni che sono considerate il cartello di Cosa nostra, non a caso abbiamo fatto un sequestro importante come quello della Geotrans degli Ercolano per un valore di dieci milioni di euro. Ci siamo occupati anche della confisca dei possedimenti di Giuseppe Scinardo (50 milioni di euro, ndr). Beni per milioni e milioni di euro che sono passati dalla disponibilità di Cosa nostra a quella dello Stato. Svuotare le casse delle organizzazioni mafiose è come svuotare le casse di un istituto di credito. Senza soldi non riescono ad andare avanti ed è così che riusciamo ad eliminare il cerchio d’azione».

Gli investimenti di Cosa nostra si fermano in Sicilia? 
«Come diceva il nostro maestro Giovanni Falcone, per capire Cosa nostra bisogna seguire i soldi e questi non si fermano soltanto in Sicilia. Non è corretto dire che la mafia ha un raggio d’azione limitato all’isola, investe piuttosto sia a livello nazionale che internazionale. Ritengo che, dove sono gli affari, ci sono anche le organizzazioni criminali pronte a inserirsi. Ognuno deve fare la sua parte, uomini dello Stato, politici e imprenditori. Tutti. È un fenomeno che insieme si può debellare».

Quant’è importante l’arresto di Mario Pappalardo per arrivare a Nuccio Mazzei, latitante da diversi mesi?
«La cattura di un latitante è un momento importante per lo Stato perché significa dare un duro colpo all’organizzazione criminale. Nel caso di Pappalardo, abbiamo arrestato un senatore della cosca indebolendo il clan anche agli occhi della società civile. La ricerca di Mazzei prosegue in maniera attenta e non nascondo che l’attenzione che si rivolge a queste persone è proprio per dimostrare la forza dello Stato. Ogni volta che incontro il procuratore Salvi il punto da cui partire, la base delle attività è cercare di assicurare alla giustizia i capi famiglia. Insieme alla cattura delle menti, però, bisogna eliminare tutto il sottobosco che li protegge e aiuta, con l’arresto dei favoreggiatori e il sequestro dei beni».

Ha nominato spesso il procuratore capo Giovanni Salvi. Sembra ci sia sintonia tra di voi.
«L’uomo dello Stato deve lavorare in maniera silente, diciamo che non ha bisogno della banda. Qui a Catania Salvi è un grande punto di riferimento e mi fa piacere sottolineare che la città ha in questo momento il meglio come investigatori. Tutti insieme possiamo fare bene perché siamo una bella squadra».


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