Rabito, inafabeto e scrittore

Le umili radici e il semi-analfabetismo non hanno impedito a Vincenzo Rabito di essere definito un Verga proletario e un Gattopardo popolare. La ragione di questi importanti paragoni è custodita nelle mille e ventisette pagine del diario che Rabito ha scritto per raccontare la sua «maletratata e molto travagliata e molto desprezata» vita.

Rabito è nato nel 1899 a Chiaramonte Gulfi, ha vissuto le trincee della prima guerra mondiale e si è ritrovato in Sicilia tra tedeschi e americani durante la seconda. Ha conosciuto il fascismo e si è lasciato affascinare dall’idea di «antare affare solde all’Africa». Rabito cominciò a lavorare in campagna da bambino, poi partì per la Prima guerra mondiale vivendo tutte le vicende del Novecento italiano sulla sua pelle, fino al 1981 quando morì.

In molti hanno definito il suo diario una delle più importanti testimonianze storiche popolari. Per Andrea Camilleri l’opera custodisce «cinquant’anni di storia italiana patiti e raccontati con straordinaria forza narrativa. Un manuale di sopravvivenza involontario e miracoloso». Camilleri non è l’unico ad essersi accorto dell’eccezionalità dell’opera, infatti, nel 2000 il manoscritto ha ricevuto il premio Premio Pieve – Banca Toscana che viene assegnato alle opere diaristiche. Nel 2007 la sua storia diventa anche un libro pubblicato da Enaudi con il titolo di Terra Matta. Ma questo Rabito non lo sa perché la sua opera fu diffusa, dal figlio Giovanni, solo dopo molti anni dalla sua morte.

A prescindere dal successo del suo diario rimane una vita incredibile, raccontata senza inventare nulla, a parte la lingua. «Io tuttu quello che scrivo, magare che si capisce poco, è tutta verità, perché io ci ho tante e tante prove». In realtà questo contadino «inafabeto» riesce a farsi capire molto bene, anche se dopo ogni parola mette un punto e virgola. Rabito ci lascia una traccia del motivo che lo ha spinto a scrivere: «La querra in casa». È il matrimonio combinato, il terribile rapporto con la suocera a spingerlo a rinchiudersi nella sua camera davanti alla sua Olivetti per sette anni. Riavvolge lucidamente il nastro della sua memoria e ci ripropone pezzi della sua storia che in realtà sono pezzi della memoria d’Italia o della «butana Madre patria» come la definisce. Così nel suo affresco d’«Etalia» ci restituisce memorie della vittoria italiana nella «Crante querra» e della fame successiva: «Abbiamo vinto la querra ma abbiamo perso il manciare». Rabito è un picaro, non è un eroe, affronta tutte le vicissitudini cercando di salvarsi la pelle e trovare qualcosa di migliore. Assaggia la fame e la disoccupazione, tenta la fortuna in Africa e nella «Cermania» di «Iteler» e infine si accontenta di un lavoro da cantoniere.

In quei sette anni, tra il 1968 e il 1975, in quella piccola stanza davanti alla sua macchina da scrivere Rabito compie un grande sforzo, lentamente combatte contro l’analfabetismo non senza difficoltà. Come una «tartaruca, che stava arrevanto al traquardo e all’ultimo scalone cascavo», ma il sapersi arrangiare che per tutta la vita lo ha contraddistinto lo ha aiutato anche in quest’ultima impresa.

La vicenda di Vincenzo Rabito è solo uno delle quattro storie che sono state raccontate nell’appuntamento di mercoledì di Radio Luxembourg. Durante la trasmissione è stato dedicato spazio alla storia dell’orsetto più famoso al mondo, Teddy Bear, e ad una canzone di Fabrizio De André, Coda di lupo. Non è mancato neanche il racconto di un evento. Siamo andati indietro fino al dieci giugno del 1981 quando un ragazzino, Alfredino, cadde dentro uno strettissimo pozzo artesiano. La tragedia fu vissuta in diretta tv e anche per questo è rimasta impressa nell’immaginario collettivo.

francescocurro

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