Al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, Luca Telese del Fatto Quotidiano, spiega per quali ragioni in Italia chi vuol fare questo mestiere ha due alternative: cambiare sogno nel cassetto o prepararsi a combattere
«Questo non è un paese per giornalisti»
L’Italia non è un paese per giornalisti. Questo è poco ma è sicuro. E lo dice Luca Telese, che un po’ di gavetta alle spalle ce l’ha, tipo il Messaggero, tipo il Corriere della Sera. Giornalini così, a livello del foglio di condominio, o della pagina di quartiere, dove scrivi dell’adulterio della tua vicina di casa con il nuovo inquilino del palazzo di fronte.
Un monologo lungo, quello del giornalista del Fatto Quotidiano, ospite del Festival del Giornalismo di Perugia: «Finii al Messaggero con una sorta di borsa di studio. Al colloquio il direttore, Mario Pendinelli, mi chiese di cosa mi sarebbe piaciuto scrivere: “Di politica, di sport o di cultura”, risposi io. “Allo spettacolo”, sentenziò lui».
L’Italia non è un paese per giornalisti. Questo è poco ma è sicuro, più va avanti il monologo, più è chiaro. Si parte da lontano, dalle agenzie che pubblicano cose non vere, che i direttori danno per vere e che i corrispondenti non possono contraddire: «Deriva tutto da quel versetto di San Giovanni: “Il verbo s’è fatto carne” è un comandamento dell’età mediatica, perché possiamo raccontare qualsiasi cosa, a prescindere dal fatto che la tridimensionalità della carne – nel suo lato peggiore – abbia prodotto Drive In».
L’Italia non è un paese per giornalisti. Né per scuole di giornalismo: «A Roma fanno studiare i libri di Giorgino, tre libri, novecento pagine. Ma che c’avrà da spiegare Giorgino per novecento pagine? Dovrebbero far studiare un libro soltanto, l’autobiografia che Montanelli dettò a Tiziana Abate. Che libro meraviglioso! C’è Salgari, altro che!».
E un giornalista che spieghi la scrittura pare essenziale, «in questi tempi in cui la compressione del fantastico porta alla dittatura dell’idiozia. Il verosimile si è mangiato il reale: stiamo in un paese in cui si potrebbe verificare il paradosso della censura della Germania della Guerra Fredda, solo che a sedere sulla testa del giornalismo sarebbe un ministro come Bondi».
L’Italia non è un paese per giornalisti. Anche se il giornalismo è il mestiere più bello del mondo, e «i giornalisti potrebbero cambiare il mondo, se non ci si mettessero gli uomini in mezzo, che hanno reso i giornali quello che sono oggi: un meccanismo darwiniano rovesciato che tenta di produrre tristezza».
E la tristezza sta nelle testate coi titoli squallidi, negli stagisti che vivono nel dubbio, nelle grosse testate nazionali che «ti trattano come uno schiavo. Al Corriere della Sera facevo i turni con una certa Maria Grazia Cutuli, alla quale davano venti righe di spazio per i suoi reportage. Finché non l’hanno ammazzata».
E allora come si fa questo mestiere? Bisogna farsi ammazzare come la Cutuli? Bisogna disperarsi facendosi frustare con gatto a nove code per dieci righe su un giornale che conta? «Bisogna combattere», sostiene Telese, «avere coraggio».