Questo maledetto assurdo Belpaese…

Un francese, una polacca e un’italiana. (Avvertenza: non è una barzelletta goliardica)

Sono a Tokyo e si parla di residenza all’estero, per studio o insegnamento. Le due ragazze non riescono a spiegare il motivo per cui il francese riesca a vivere in Giappone da ormai molti anni. Infine l’uomo risponde: “Non mi piace la situazione politica in Giappone ma ancora di meno mi piace cosa succede ora in Francia. Se fossi là, mi troverei nella situazione di minoranza che non può fare nulla ma che vorrebbe; almeno sono qua, da straniero con tanto di certificazione di garanzia (la chiamano “alien registration”) non posso fare nulla ma non è che ci tenga molto, non è il mio Paese”.

Allora io, che sono l’italiana, inizio a riflettere e, chissenefrega se il francese è il mio professore, dissento. Mille volte meglio essere resistenza attiva nel proprio Paese che disinteressati e passivi all’estero, come in una culla di ovatta (e sintetica).

Tutto questo preambolo per introdurre la questione: il voto degli italiani all’estero, per la precisione l’impossibilità per alcuni di votare.

Il decreto di legge relativo all’esercizio del diritto di voto dei cittadini temporaneamente all’estero per motivi di servizio o missioni internazionali prevede l’esercizio di tale diritto per: il personale delle Forze armate e delle Forze di polizia impegnato temporaneamente all’estero in missioni internazionali; i dipendenti di amministrazioni statali che per ragioni di servizio si trovino all’estero in via transitoria e dei loro familiari; i professori universitari e ricercatori in servizio o impegnati in attività di ricerca per almeno sei mesi all’estero.

Ciò significa che studenti Erasmus, o più in generale qualsiasi studente di scambio all’estero non rientra in tali categorie, outcast anche in questo caso. E io faccio perfettamente parte di questo gruppo di astenuti forzati. Cioè, è partecipazione politica che viene meno, non come scelta ma come imposizione.

Chi si trova in Italia avrebbe da obiettare che attualmente non è gratificante poter votare, che con l’impresentabilità dei candidati sembra persino un crimine esprimere il proprio voto. Ma da quando sono lontana dal mio Paese ho sempre seguito gli eventi che accadono laggiù, ho controllato tutti i santi giorni le notizie su internet, inizialmente ho provato anche a difendere la reputazione degli italiani di fronte gli stranieri, poi ho dovuto rinunciare, non potevo negare l’evidenza della contraddittorietà degli italiani, qua ci vorrebbe una affettuosa brutta parola per definirci, tengo ancora a mettermi in mezzo agli altri compagni di disastro.

Non ho mai pensato che il mio voto potesse essere di rilevanza al fine dell’esito, ma mi ritrovo ugualmente spiazzata per ciò che mi viene negato e tanto meno ne riesco a cavare il perché.

Sì, fondamentalmente sono una idealista e sentimentale. E mi è sempre piaciuto poter votare, lo faccio da sempre, per lo meno, da quando mi è permesso, anche quando per totale incompatibilità con i candidati ho annullato la scheda (in quel caso è stato molto utile scrivere nella scheda del consiglio di quartiere il nome di Silvio Berlusconi, ed è stata l’unica volta che l’ho votato, lo giuro).

La ragione di tale scelta risale a molto tempo fa: ricordo ancora che in seconda o terza elementare durante l’ora di educazione civica (si fa ancora?) dopo avermi detto che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, che ripudia la guerra, che sostiene la libertà di culto-pensiero-orientamenti-inclinazioni, la maestra ha spiegato che il voto è un diritto e un dovere. Per lo stesso motivo per cui la disoccupazione è la regola, le nostre truppe più volte sono state spedite in giro per il mondo in guerra (non in pace, come si giustificano), gli omosessuali per alcuni sono ancora malati, potrei chiudere un occhio sul voto che mi è negato. E invece no, perché resto aggrappata ad ogni singolo diritto che mi è concesso e ho un alto senso del dovere, soprattutto quando in una cosa voglio ancora crederci, e malgrado tutto.

Sarei tornata per votare, ma il costo del volo per rientrare oscillerebbe sugli ottocento euro; non ce li ho proprio questi soldi e sono lontana dall’Italia perché reputo che stia costruendo me stessa, il mio carattere, le mie competenze, forse per incrementare dell’1% la possibilità di trovare un lavoro, sarebbe già qualcosa.

Di fatti, non sono sicura di essere in grado di conquistare un riccastro figliodipapà e farmi portare all’altare, sebbene non sia una novità, mia nonna me lo diceva già tanto tempo fa “beddu riccu e malandrino ti ll’a pigghiari”.

Insomma la mia non è una fuga, o almeno non vorrebbe esserlo. Dico a me stessa che sono lontana dall’Italia perché, una volta tornata, conto di non essere solo una bocca da sfamare, che tanto nessuno sfama gratis.

Chiedo solo di poter essere una cittadina italiana e, anche se lontana, di fare parte del mutuo scambio tra uno Stato e i suoi abitanti. Poi mi dico, da profeta in Patria avrò tutti gli indizi per perdere anche questa ultima speranza.


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