Quell’Italia difficile da raccontare

Raccontare l’Italia non è facile. È un paese pieno di contraddizioni, di storie da narrare, di frasi fatte e di possibilità non sfruttate. C’è chi ci prova, e lo fa in “Presa Diretta”: stiamo parlando di Riccardo Iacona, uno dei pochi giornalisti che fanno inchiesta in prima serata. Sulla RAI, per di più. Proprio qualche giorno fa, al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, Peter Horrock, direttore della BBC Global News, e Charlie Beckett, direttore di Polis, avevano chiesto alla platea che si trovavano davanti quanti fossero a guardare i tg della televisione di Stato per informarsi su cosa succede nel mondo: nessuna mano alzata. Noi abbiamo incontrato il giornalista di RAI Tre e autore del libro “L’Italia in Presadiretta – Viaggio nel paese abbandonato dalla politica” per parlare appunto del rapporto tra televisione, informazione e inchiesta.

Lei ha dichiarato che ama molto la televisione: un’affermazione piuttosto originale, in tempi di vuoto mediatico. Quali sono le potenzialità della televisione che secondo lei non vengono sfruttate?
«Amo molto la televisione per la capacità che ha di ricreare una realtà parallela e di rafforzare il senso di comunità. Prendete quello che succede quando tutti quanti ci fermiamo a guardare la finale del Mondiale a cui partecipa l’Italia: anche se viviamo in posti diversi, per un momento siamo tutti comunità. Pensate quanto sarebbe importante questa sensazione se la estendessimo al racconto dell’istruzione, dell’energia, dell’immigrazione, della religione. E poi, il mio lavoro fatto con la telecamera e non con la scrittura dà la possibilità di un’immedesimazione empatica: ti fa vivere una storia che non vivrai mai, ti fa entrare nella vita di italiani che non incontrerai mai».

L’abbiamo dato per assunto, l’Italia è difficile da raccontare. Quali sono i temi paradigmatici di questo paese che non vengono trattati?
«Uno è l’economia, in cui si aprono delle praterie sconfinate per la creatività politica. Cioè, immaginare come creare cinquantamila posti di lavoro qualificati, per esempio su temi come la nuova politica energetica, gli investimenti sui beni culturali, la difesa del territorio contro i disastri, significa ridisegnare il paese. Questo è un cantiere Italia, con un mucchio di possibilità aperte, se solo la politica attraversasse queste praterie. Quindi manca tutto il racconto dal basso della crisi economica. Poi manca l’attenzione sulle questioni della democrazia: la riduzione progressiva della partecipazione delle persone alla vita quotidiana della nazione è una parte del problema. Ogni volta che troviamo esempi di buona politica, vediamo che si accompagnano a fenomeni di ampliamento della democrazia. L’altro grandissimo tema che ci permette di mantenerci allineati sugli standard europei è quello della formazione e della ricerca, un terreno su cui c’è molto ancora da fare».

Quando si pensa alle inchieste vengono in mente due nomi: Milena Gabanelli e Riccardo Iacona. Perché non c’è altro? Perché il panorama è così limitato?
«Si potrebbe fare inchiesta pure col telegiornale. L’informazione quotidiana, che non segue le notizie prima, durante e dopo, consente ai politici di mentire. Guardiamo cos’è successo col miracolo dell’immondizia sparita a Napoli, o a cos’è successo L’Aquila. Non si fa il giornalismo autonomo e indipendente, è quello il problema in Italia. Non bisogna dar fastidio alla politica, l’agenda è dettata dai partiti, e abbiamo un racconto del nostro quotidiano che si affida esclusivamente alla propaganda di uomini che arrivano nei salotti buoni della televisione e parlano per slogan».

Lei ha affermato che guarda con molto interesse ai giovani giornalisti. Qual è il valore aggiunto che hanno i giovani rispetto alle colonne del giornalismo che da parte loro posseggono l’esperienza?
«Cerco di guardare ai tanti contenuti che girano, che sono fatti da persone: giornalisti, giovani che vogliono diventare giornalisti, ma soprattutto protagonisti sociali che sanno le cose. C’è un sacco di gente in Italia che ha qualcosa di importante da dire e non riesce a dirlo. Quando lo dice però, si vedono le soluzioni. Quindi bisogna far parlare in televisione queste persone e non quelli che fanno propaganda. Bisogna aumentare il volume delle informazioni. Il compito di Presadiretta non è fare la cronaca di quello che tutti già sanno: alla fine devi avere la sensazione che almeno una parte di quello che hai visto non lo sapevi o, se lo sapevi, non pensavi che fosse così. I giovani giornalisti hanno di bello che, quando tutto funziona, portano nuovi contenuti. Per questo io sto un po’ con le orecchie puntate».

Qualche giorno fa, durante il Festival del giornalismo di Perugia, a un incontro con il direttore di BBC Global News, alla domanda su chi usa la RAI per informarsi sul mondo la platea ha taciuto. Secondo lei perché?
«Perché la RAI non sta parlando del mondo. Ci ha rinunciato. Basta vedere i telegiornali, le rubriche. L’unica cosa che vediamo ossessivamente, perché serve al prodotto che i partiti stanno preparando per questa campagna elettorale, sono i barconi che arrivano. Però, dietro quei barconi, c’è un continente intero, e non è che le cose che stanno succedendo in Africa succedono da oggi. Negli ultimi dieci, quindici anni ci sono state delle trasformazioni pazzesche e non averle raccontate è criminale, perché oggi che esplode il Mediterraneo non capiamo perché e l’unica cosa che possiamo dire è che arrivano i Saraceni e che dobbiamo chiudere le porte, sprangare le finestre. Purtroppo sì, la RAI fa pochissima informazione su quello che succede attorno a noi».


È mai capitato che la magistratura aprisse un’indagine partendo da una sua inchiesta? E perché molti giornalisti hanno smesso di essere quelli che per mestiere scoprono i fatti, e quindi anticipano i disastri, e si sono chiusi nel ruolo di quelli che li raccontano a posteriori?

«Sì, è capitato che inchieste della magistratura siano partite dal racconto che abbiamo fatto di questo paese. Le inchieste giornalistiche creano nuovo sapere condiviso da milioni di persone, specialmente quando passano in televisione. Però c’è un meccanismo strano per cui se la Gabanelli scopre qualcosa che è da titolo di giornale, i giornali ne parlano e la televisione no. E non ne parla chi deve fare l’agenzia quotidiana. Per esempio, io ho fatto delle puntate in cui ho chiesto di intervistare il ministro Maroni e lui ha detto di no, ma il giorno dopo nessun mio collega è andato dal Ministro per chiedere conto di quello che ha visto in TV. C’è un conformismo che io chiamo autocensura, svolta autoritaria, restrizione sostanziale della democrazia. E che questo sia un paese già meno libero (affermazione presente nel libro “L’Italia in presadiretta”, ndr) si vede proprio da questo: non c’è un minimo comun denominatore che fa scattare automaticamente e fisiologicamente il meccanismo per cui si va a chiedere conto al politico di turno che ha la responsabilità».

Non è mai capitato a Presadiretta di autocensurarsi?
«No, nel senso che siamo liberi e le nostre scelte le facciamo in piena responsabilità. E in Italia, esistendo ancora un enorme territorio ancora da scoprire, sono tanti i buchi neri dell’informazione, non ci mancano le puntate e non si può neanche dire che le nostre puntate siano compromissorie. Quando scegliamo un tema, su quello andiamo giù diretti».


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