I ricercatori precari dell’Ateneo di Catania non votano, ma ricercano. Anche se stessi. È questo il senso della giornata di oggi, la “Giornata del ricercatore precario” appunto, in programma mentre a Palazzo Centrale si vota per l’elezione del nuovo rettore, che forse tanto nuovo non sarà. Per i precari, questo lunedì si articolerà in due momenti: la presentazione stamattina di un questionario sul lavoro atipico nell’Università di Catania – non un censimento delle forze, come ci spiegano di seguito, ma un’analisi – e un dibattito pomeridiamo (alle 16.30 nei locali del Medialab della facoltà di Lingue) su “Università e democrazia”. Perchè “un’università migliore”, scrivono gli organizzatori, “significa maggior benessere e una migliore qualità della vita democratica di questo Paese”.
Step1 ha realizzato un’intervista collettiva ad alcuni ricercatori precari dell’Ateneo di Catania: Chiara Rizzica (dottore di ricerca e docente a contratto di Architettura) e Mariagrazia Militello (dottore di ricerca e docente a contratto di Giurisprudenza) ci hanno risposto a nome del Coordinamento dei Precari della Ricerca di Catania. Hanno aggiunto le loro considerazioni anche altri tre membri del movimento, Manuela Coci di Scienze Microbiologiche, Antonio Las Casas di Giurisprudenza e Gaetano Distefano di Agraria.
“Io non voto ma ricerco”, un’iniziativa dedicata alla figura del ricercatore precario in un giorno certamente non casuale, viste le concomitanti elezioni del Rettore. Come vi è sembrato il livello della discussione per le elezioni del rettore? Siete soddisfatti dell’attenzione riservata ai precari?
Mariagrazia Militello e Chiara Rizzica: “Io non voto ma ricerco” non è solo uno slogan accattivante, ma intende mettere in evidenza come la questione del precariato universitario sia rimasta invisibile nel dibattito elettorale. Ci sembra che l’assenza dei ricercatori precari dalla ribalta della campagna elettorale sia dovuta non tanto al fatto che i precari non sono elettori, quanto piuttosto al fatto che nell’opinione comune la “ricerca precaria” sia considerata un non-problema, un incidente di percorso.
Manuela Coci: Non mi risulta che si sia parlato davvero di precari. Si parla ogni tanto di giovani ricercatori come se fossero delle entità astratte, o di precari come se fossero dei poveri sfortunati, quando invece questi sono professionisti che lavorano da tempo nelle strutture del nostro Ateneo e che hanno un’identità ben precisa. Quindi non mi sento affatto soddisfatta: vorrei una riflessione seria e un’analisi attenta. La scheda che il Rettore ha inviato tramite la commissione sul precariato, dalla quale noi ci siamo immediatamente dissociati, era emblematica della scarsissima volontà di affrontare il tema. Penso che utilizzare l’assenza di risorse sia una scusa scorretta. Nessuno di noi ha chiesto un contratto di lavoro a partire da domani. Noi vogliamo discutere del futuro, pianificare, proporre, immaginare che l’alto prezzo che stiamo pagando per una politica di avanzamenti di carriere e di non inserimento di nuove figure flessibili, sia un prezzo troppo salato per le nostre tasche”.
Antonio Las Casas: Abbiamo scelto questo giorno perché ci piacerebbe che chiunque venga eletto come rettore si ponga il problema del rilancio del ruolo dell’università pubblica, ne difenda la credibilità e la rilevanza sociale, e sia portatore un progetto culturale per il nostro Ateneo che valorizzi anche il ruolo ed il merito dei giovani ricercatori. Alla luce di queste premesse, il dibattito pre-elettorale non mi ha particolarmente entusiasmato.
“Indagine sul lavoro atipico nell’Università di Catania”: pensate di farne un’inchiesta seria? Vi impegnate a pubblicare i dati?
Mariagrazia Militello e Chiara Rizzica: L’indagine ha lo scopo di mettere in luce cosa accade quando un dottore tenta la carriera universitaria a Catania; c’è molto quindi della nostra diretta esperienza. Il questionario è anonimo, strutturato in 92 domande e tarato per essere compilato in 15 minuti: tutto è stato pensato per svolgere un’indagine a regola d’arte secondo i criteri sociologici, psicologici e statistici. Ognuno di noi raccoglierà i dati facendo l’intervistatore e, avendo stimato che la popolazione di “giovani” precari si aggira intorno a 1.000 unità in tutto l’Ateneo, saranno rappresentativi circa 285 casi-studio. Quando termineremo il lavoro d’indagine, lo renderemo noto agli organi d’Ateneo e di stampa. L’obiettivo non è quello di realizzare un semplice censimento dei lavoratori precari, ma di fotografare le condizioni e le caratteristiche della “ricerca precaria” all’interno del nostro Ateneo. Obiettivo ben diverso da quello individuato dalla Commissione d’Ateneo sul Precariato, che lascia fuori molte di queste figure.
Manuela Coci: Ci abbiamo messo del tempo a preparare il questionario. Faremo una prova con l’ateneo di Catania e se i dati raccolti si rivelassero, come crediamo, utili, vorremmo proporlo anche ad altri atenei.
Antonio Las Casas: Speriamo di farcela. Le premesse per un’inchiesta seria ci sono, perché il questionario è stato elaborato da chi ha una competenza in questi campi (acquisita con la propria attività di “ricercatore precario”). Le difficoltà che talvolta abbiamo nel portare avanti le attività del coordinamento derivano dal fatto che il tempo impiegato per il coordinamento è sottratto al lavoro e questo non sempre è possibile.
Trovate anche voi che ci sia un po’ di confusione e disinformazione, soprattutto tra gli studenti, sulle varie figure che popolano l’università? Capita di sentire che i “cultori della materia” siano “quelli (non meglio identificati) che la sanno molto bene”… Vi sta comoda o scomoda tanta confusione? E vi fa piacere quando vi chiamano prof?
Mariagrazia Militello e Chiara Rizzica: Dalla nostra esperienza quotidiana di lavoro nelle facoltà ci risulta che i “cultori della materia” sono ben noti sia agli studenti che ai docenti che li “nominano” in quanto ben in vista dietro le cattedre durante le lezioni e gli esami. Sempre dall’esperienza sul campo ci preme raccontare che, sì, ci fa piacere se ci chiamano “prof”, quando effettivamente lavoriamo come docenti e ci diverte quando al “prof” segue il “tu”: siamo giovani.
Manuela Coci: La confusione per me è sempre sintomo di disinformazione. Quindi direi che mi sta scomoda e spesso mi spaventa. Durante i primi incontri con gli studenti gli illustro il tipo di contratto che mi lega all’università e mi presento sempre come dottore di ricerca, mai come professore. No, non mi fa piacere, essere chiamata “prof”. Sarà che sono cresciuta con il mito della conoscenza e mi illudo che il titolo di professore universitario sia davvero un titolo importante, impegnativo e per il quale si dovrebbero superare concorsi, prove e dure selezioni. Certo ho imparato che non sempre è così, ma potrebbe essere il futuro, no?!
Antonio Las Casas: A me interessa soprattutto che gli studenti si rendano conto che la loro formazione universitaria, in una certa misura, è resa possibile grazie all’attività di tanti giovani ricercatori che cercano di impegnarsi seriamente e con passione affinché la nostra università sia un luogo dove si produce “sapere” di elevata qualità. Non mi fa piacere se mi chiamano prof, perché non lo sono e il titolo voglio “guadagnarmelo sul campo” grazie ai risultati del mio lavoro.
Che fine hanno fatto i vostri rappresentanti?
Mariagrazia Militello e Chiara Rizzica: Il regolamento di questo Ateneo non prevede che i ricercatori precari abbiano una rappresentanza negli organi di governo. I dottorandi eleggono i propri rappresentanti nei consigli di dipartimento.
Manuela Coci: Bella domanda… li chiediamo a gran voce ma non ne abbiamo diritto! Esistono i rappresentanti degli studenti, dei dottorandi, degli assegnisti e a loro cerchiamo di affidare le nostre istanze in sede pubblica. Non sono previsti rappresentati per i contrattisti, i collaboratori di ricerca… è tra i nostri obiettivi poterli avere e sceglierli.
Fino ad adesso sembrava prevalere l’idea che l’impegno politico-sindacale non pagasse e che chi volesse far carriera accademica dovesse pensare solo a studiare e a “piazzarsi” col maestro giusto. Adesso, invece, alcuni di voi si sono dati al “movimento”. Cosa vi ha spinto a impegnarvi?
Mariagrazia Militello e Chiara Rizzica: Proviamo a fare un elenco di cosa è “utile” per la carriera universitaria: 1) il buon maestro che ti insegna il mestiere della ricerca; 2) la passione per la ricerca, spirito di sacrificio, fisico allenato, nervi saldi e capacità di moltiplicare il tempo e le energie; 3) un altro lavoro per mantenerti. Tutto questo non serve, però, se non c’è consapevolezza del valore del proprio lavoro e questa si acquista, o anche solo si rafforza, se è una risorsa condivisa. A questo “serve” il movimento: ad incrociare i percorsi individuali sugli obbiettivi comuni.
Manuela Coci: Per me il movimento è una vera conquista. E’ nato spontaneamente dall’esigenza di un confronto tra giovani ricercatori che non hanno avuto paura di esporsi e che hanno ritenuto normale parlare della riforma universitaria. Chi ne dovrebbe parlare se non noi? Ci siamo arricchiti confrontando realtà precarie in diverse facoltà e dipartimenti del nostro ateneo, con un comune denominatore nel fatto di essere instabili e non poter pianificare un futuro, spesso anche di ricerca, e ci siamo sostenuti per questo. In questo mi sento di dire che siamo dei veri professionisti.
Del resto, cosa dovrei preoccuparmi di perdere? Un posto? Un concorso? Di infastidire il Maestro? Se esistesse, credo che un vero maestro dovrebbe essere orgoglioso di vedere il proprio discepolo responsabile del proprio futuro. Spesso penso che “muore lentamente chi abbandona un progetto prima di iniziarlo”. Il movimento è un progetto ed è ancora vivo.
Antonio Las Casas: Non ci siamo mobilitati per contrattare con l’Ateneo la concessione di “posti di lavoro strutturati” né riteniamo che le opportunità di progressione in carriera dei giovani debbano dipendere da rivendicazioni di carattere sindacale. Piuttosto il criterio dovrebbe essere quello del merito scientifico e quindi è essenziale studiare e produrre risultati scientifici. In questo senso è perciò essenziale anche il rapporto col maestro, limpido e trasparente, che è uno dei passaggi fondamentali del processo di trasmissione del sapere scientifico ed è fuorviante intenderlo come una relazione ambigua che prelude ad una raccomandazione.
Noi chiediamo opportunità: che ci si ponga il problema della condizione di “precarietà”, formulando un programma per un miglioramento, e che questa condizione sia limitata nel tempo, come una fase al termine della quale chi ha dimostrato di aver lavorato bene abbia opportunità di carriera.
Tra i ricercatori precari che seguito ha il Coordinamento? 10%, 50%, 100%?
Mariagrazia Militello e Chiara Rizzica: Dentro il coordinamento dei Precari della Ricerca lavorano alcune persone con continuità, altre saltuariamente, altre ancora ci seguono a distanza attraverso il blog e la mailing list. Come fare a dare i numeri? E soprattutto quali sono i numeri significativi?
Manuela Coci: Io direi il 10%. Poco certo, ma di qualità. Alle assemblee non raggiungiamo mai grandi numeri, la città di Catania del resto non è più tanto abituata a un civile dibattito politico. Devo dire però che molti ci contattano via email.
Giuseppe Distefano: La spinta ad impegnarmi è sicuramente data dalla voglia di iniziare un processo di ‘cambiamento culturale’, che riguarda non solo l’università ma anche la società. Penso sia nota a tutti la mancanza generale di indignazione verso gli abusi e i soprusi che viviamo, specialmente nella nostra città. Un modo di fare ‘mafioso’ che ci porta in caso di qualsiasi necessità a cercare una scorciatoia, una ‘amicizia’, senza pretendere quelli che dovrebbero essere i diritti basilari. Un cambiamento a partire dalle istituzioni, dove si ha la formazione delle figure professionali che operano nel nostro paese, penso sia il cammino obbligato per sperare in una società migliore rispettosa delle regole (senza l’esaltazione delle furberie) e meritocratica. So che un’illusione, ma intanto io inizio da me stesso.
Antonio Las Casas: Non so, noi cerchiamo comunque di far conoscere il più possibile le nostre attività e di essere aperti all’apporto di nuovi colleghi. E soprattutto, siamo animati soltanto dall’intenzione di fare qualcosa di buono per l’università e, in questo modo, per la società. Questa è “politica” nel senso proprio del termine.
Da fratelli maggiori (se non, in qualche caso, da papà) che pensate del cosiddetto “movimento studentesco”? E in che cosa vi sentite diversi da loro?
Mariagrazia Militello e Chiara Rizzica: Condividiamo con gli studenti del Movimento Studentesco di Catania il progetto di un’università migliore sin dall’inizio della mobilitazione di ottobre 2008. Il coordinamento è nato proprio in questa occasione, il Movimento Studentesco c’era già: sono loro i fratelli maggiori.
Manuela Coci: Anche il movimento studentesco in questa città non raggiunge grandi numeri. Comunque mi sento vicina ai ragazzi del movimento, dai quali certo mi sento diversa per le forme di espressione, essendo le nostre meno pittoresche. Direi che c’è stato un arricchimento, spero reciproco, da parte dei due movimenti.
Antonio Las Casas: Non sono in grado di dare alcun consiglio e non credo che ne abbiano bisogno. Semmai posso formulare un auspicio: che non si stanchino di impegnarsi per un’università migliore, non soltanto con la mobilitazione pubblica, ma anche chiedendo ai loro professori (e ricercatori precari) sempre maggiore impegno e qualità della formazione universitaria.
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