Quei diritti umani più uguali degli altri

Questa mattina sarà in programma, presso l’aula Medialab del Monastero dei Benedettini (piazza Dante 12), un incontro-dibattito che sarà coordinato da Gianluca Reale e trasmesso in diretta da Radio Zammù, cui partecipa lo storico Stefano Cammelli, docente dell’Università di Bologna. All’incontro parteciperanno anche Mario Castorina Calì, dell’Istituto buddista italiano Soka Gakkai e il preside della facoltà di Lettere e Filosofia Enrico Iachello. L’articolo che qui pubblichiamo riassume i temi principali su cui si incentra il dibattito. Ieri, sempre ai Benedettini, il professor Cammelli ha tenuto un seminario su “Il potere politico e l’arte del governare nella Cina contemporanea”. L’incontro rientrava nel ciclo “Lezioni Nino Recupero”.

Il dibattito di questi mesi sul Tibet e quello innescato dalla rivolta della popolazione e dei monaci buddhisti in Birmania ha proposto – cementate in un unico blocco – la notizia della rivolta, la sua condanna in nome del rispetto dei diritti umani, la richiesta di un intervento del governo della Repubblica Italiana e dell’Unione Europea nonché delle più importanti organizzazioni internazionali.

Il tema viene affrontato con grande emotività: non è difficile scorgere in tanta emozione un complicato intreccio di solidarietà umana, solidarietà spirituale e grande reattività nei confronti di due paesi come Cina e Birmania che sembrano ignorare ogni elementare norma di diritti umani e civili. Il risultato di un appiattimento di questa natura è l’approdo all’equazione per cui la mancata critica della Cina comporterebbe l’automatica sottovalutazione della causa dei diritti umani. Ovviamente è pronto anche il movente: i ricchi contratti che le aziende di tutto il mondo stanno portando a casa cadrebbero inevitabilmente se si accennassero reazioni consistenti sul problema del Tibet e della Birmania. Guardate da distanze siderali, quasi planetarie, tutte le questioni riescono semplici: il problema è che il nostro paese, la nostra Unione Europea e noi come cittadini italiani non siamo su un altro pianeta e quindi non possiamo semplificare le cose in modo così rudimentale.

La rivolta birmana è certamente una pagina nobile per quel popolo, ed è altrettanto sicuro che il comportamento di quel governo è inaccettabile agli occhi di chi scrive come di chiunque abbia cuore la causa più complessiva dell’umanità. Naturalmente sappiamo tutti che la rivolta dei monaci è un problema interno alla Birmania e che non abbiamo alcun titolo per intervenire in affari interni di un altro paese. Ma, qui, la coscienza civile si ribella e proclama che quando i diritti umani vengono calpestati in tal modo e con simile arroganza c’è un dovere morale all’intervento. Concetti nobili, parole nobili. Appellandosi a un diritto fondamentale dell’uomo si proclama il diritto a intervenire o premere sulla Birmania anche se si tratta di questioni interne: un diritto umano violato – si dice dunque – non è mai una questione interna.

Sembrerebbe tutto semplice. Qualche mese fa in Uzbekistan, nella grande valle di Fergana, il governo uzbeko del dittatore Karimov represse una rivolta nel sangue. Secondo i giornali occidentali i morti furono oltre tremila. Numero incerto (come quello birmano) ma comunque immensamente alto. In questi stessi giorni dittature molto energiche in Kazakhstan, in Turkmenistan, violano costantemente ogni forma di diritto umano. Gli oppositori scompaiono: andare in galera è già un successo, non garantito a tutti. Come mai nessuno dice niente? Perché i morti della valle di Fergana – sicuramente molto più numerosi di quelli birmani, ma ovviamente non è questo il punto – non hanno gli stessi diritti degli altri? Perché i diritti civili in

Kazakhistan e Turkmenistan non commuovono nessuno?

Il fatto è che senza il sostegno dell’Uzbekistan non sarebbe iniziata la guerra in Afganistan né, oggi, potrebbe contare su un sicuro retroterra. Senza l’energia degli altri due Stati l’Italia si troverebbe in una situazione molto, molto critica: anche cucinare un piatto di pasta diventerebbe un problema. E così, purtroppo, la battaglia dei diritti umani viene combattuta in modo non omogeneo e questo ne spenge, prima ancora di iniziare, ogni potere di influenza.

Non è più semplice la situazione tibetana. Solo ignorando troppe cose si può affermare un diritto all’indipendenza del Tibet e considerare il Dalai Lama capo di uno stato in esilio. La grandezza spirituale di Sua Santità non è in discussione, ma non ha nulla a che vedere con l’indipendenza di un paese nei termini in cui viene discussa in questi giorni. C’è a questo proposito diffusa e generalizzata una tale ignoranza del problema che sgomenta. Nessuno sembra sapere che la storia del Tibet è strettamente intrecciata con la storia cinese da oltre ottocento anni. Nessuno sembra (volere) sapere che i principali monumenti religiosi a Pechino sono tibetani. Nessuno sembra volere ricordare o sapere che per quasi sette secoli ed oltre il lamaismo tibetano ha condiviso il potere non del Tibet ma dell’intera Cina con le corti delle differenti dinastie a partire dagli anni di Marco Polo.

Ora questo non significa negare che il Tibet abbia una sua cultura, una sua lingua, una sua dimensione culturale che deve essere protetta. Ma un conto è difendere la cultura del Tibet dagli attacchi che ha subito – e sono stati innumerevoli – e un conto è inventarsi un’occupazione straniera. I monaci tibetani erano parte della classe dirigente in Cina ed i soldati cinesi erano presenti a Lhasa a partire dalla metà del XIII secolo e ne sono venuti via nel 1911 quando non il Tibet, ma l’intera Cina si sfasciò negli anni della repubblica. La consapevolezza dell’appartenza alla Cina del Tibet ha caratterizzato – per ricordare solo i più importanti – i presidenti americani Roosevelt e Truman, i cinesi Sun Yatsen, Mao e Chiang Kai-shek, gli indiani Nehru e Gandhi, i primi ministri inglesi incluso Churchill, i presidenti russi da sempre. Ora potrà anche darsi che la nostra società sia infinitamente più saggia e più giusta. Ma se Gandhi e Nehru, Churchill e Roosevelt hanno dichiarato in anni decisivi che il problema tibetano non era di competenza internazionale ma problema interno cinese la questione deve essere – per forza di cosa – un pochino più complessa. E richiede un supplemento di indagine. E se i cinesi, insieme a molte colpe, avessero anche una parte di ragione?

L’arma dei diritti umani è giusta e formidabile, ma usata senza la conoscenza delle situazioni e in modo non costante (Birmania sì, Uzbekistan no) riesce a ottenere il solo risultato di generare tensione nella comunità internazionale. Alzare il livello dello scontro alla massima emotività e al minimo di razionalità. Serve a qualcuno? Certamente a un’amministrazione che deve affrontare elezioni imminenti e difficili. Serve a qualcun altro? e perché?

I diritti umani sono un problema troppo serio per trasformarlo in pedina di scambio elettorale o slogan pubblicitario. Serve coraggio e coerenza, determinazione e conoscenza. Tutte cose che un governo talora non si può permettere, ma che la società civile ha il dovere di fare. Ma questa nostra società, così giusta e liberale, è in grado di organizzare per la Birmania e la cultura tibetana la stessa mobilitazione che a suo tempo rese vittorioso il Vietnam? Non stiamo chiedendo che il governo faccia quello che noi non siamo più in grado di fare o non ci interessa più fare o non vogliamo fare? Se le cose dovessero stare così allora il problema dei diritti umani diventerebbe davvero grave: ma non in Birmania o in Cina, qui da noi, in Europa. Senza coscienza civile non c’è diritto umano che tenga.

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