Prove tecniche di libertà

Dunque, una città invisibile. Una città da percorrere e ascoltare di notte, quando i suoi vuoti si riempiono, quando le sue voci risuonano un po’ più forte. Una città da scrutare nelle sue periferie, da raccontare attraverso il ciclico ritorno dei medesimi eventi: come il tempo senza tempo dell’Antico Corso, come l’ultimo – l’ultimo? – inganno elettrico ed elettorale di Librino. Una città – quella che, in queste settimane, i reportages di Valentina, Alice, Sara, Laura ci hanno fatto vedere – da setacciare quasi con l’animo di un rabdomante: con i nervi tesi a scoprirne ogni rivolo segreto, con le parole pronte a dirne le risonanze nascoste. Con il rischio, anche, che qualcuno prima o poi finisca per accusarci di non aver fatto giornalismo; e che liquidi, assai sbrigativamente, il lavoro dei nostri ragazzi come futile, lamentosa letteratura.

 

Ci può essere anche un altro modo di raccontarla, questa città invisibile. Meno intimo, forse. Più freddo e tradizionale. Non migliore dell’altro, intendiamoci: diverso, semplicemente. È quello con cui, questa primavera, hanno cercato di confrontarsi i ragazzi del laboratorio sul giornalismo d’inchiesta. I loro articoli, nelle prossime settimane, si alterneranno su Step1 ai reportages coordinati da Fabio. Non ci si troverà, diciamolo subito, la stessa intensità di scrittura. Ci si troverà magari qualche dato in più: cifre, informazioni tecniche, interviste, verbali. Gli ingredienti di un genere nobile – l’inchiesta, appunto – che in Italia è quasi in via d’estinzione. Ma con il quale abbiamo voluto lo stesso mettere a confronto i ragazzi; nella convinzione che potesse essere – anche questo – un piccolo, prezioso esercizio di libertà.

 

La questione, in fondo, era tutta qui. Convincere i ragazzi che noi non avevamo verità da dispensare. Far capire loro che non poteva esaurirsi tutto nel rito delle poche ore di incontri in laboratorio: noi a spiegare, loro a prendere coscienziosamente appunti e a compilare qualche esercizio. Bisognava far capire che fare informazione, qualche volta, deve significare aprire i cancelli e uscirne. Che l’informazione non è obbligata a ridursi all’indispensabile – ma sempre uguale a se stessa – selezione e confezione di quanto altri hanno già detto, di quanto altri hanno già innalzato a notizia: alla semplice guardiania del cancello, per usare un’immagine cara ai teorici del giornalismo.

Ecco, dunque, quel che abbiamo cercato di fare: guardare a ciò che è intorno a noi, alla realtà che ci vediamo scorrere davanti ogni giorno; e non rinunciare a interrogarla. Ricordare che esistono notizie che non vengono a bussare alle porte delle redazioni. Cercare risposte, e più ancora cercare nuove domande. Scoprire che, a volte, le città sono invisibili perché siamo noi che non riusciamo a guardarle.

 

Non c’è da attendersi, dalle nostre inchieste, rivelazioni su dove sia nascosto Provenzano. Non era quel che cercavamo, né pretendiamo che a dircelo siano ragazzi di vent’anni. C’è da aspettarsi, invece, lo sforzo di comprendere, di confrontare, di mettere insieme frammenti. Lo sforzo di leggere i fatti d’ogni giorno, quelli che ci toccano da vicino, per provare a comporne il senso e per lasciare aperto qualche dubbio. Se saremo riusciti a far comprendere tutto questo, non avremo lavorato invano. E non sarà stato banale nemmeno l’aver raccontato cose in fondo prosaiche come il problema dei parcheggi, o magari leggère, come i successi e le sconfitte di questo o quell’altro sport. Se saremo riusciti in questo – ma di ciò, infine, giudicherete voi – avrà avuto un senso anche lo sforzo ulteriore imposto a questi ragazzi: che abbiamo costretto a girare per la città, a organizzarsi in gruppi, a raccogliere interviste sotto il sole d’agosto. Che abbiamo obbligato – e i lavori sono ancora in corso – a riscrivere i loro pezzi due e tre e quattro volte. Cui abbiamo cercato di far capire – a spese di qualche spicchio delle loro vacanze – che un’inchiesta o un reportage non possono farsi da dietro una scrivania. E tantomeno da dietro i banchi d’una facoltà.

 

Tra le pretese che i nostri laboratori non hanno mai avuto – è bene ripeterlo ancora una volta – c’era quella di mantenerci olimpicamente indifferenti a ciò che raccontavamo. Di essere, come si ama dire, asetticamente “obiettivi”. Abbiamo cercato, piuttosto, di essere intellettualmente onesti. Di essere seri, questo sì, ci siamo sforzati fino in fondo. Ma sappiamo bene che l’informazione, comunque la si pratichi, è fatta di scelte. Che il semplice fatto di dare o non dare una notizia, di collocarla in un punto o nell’altro d’una pagina, implica già un giudizio e una presa di posizione. Nelle nostre inchieste e nei nostri reportages, dunque, abbiamo sempre lasciato intendere scelte e giudizi; giudizi, per quanto possibile, fondati sui fatti, non su idee preconcette o appartenenze. L’abbiamo fatto sapendo perfettamente che la stampa non diventa libera se si limita a soppesare voci e opinioni con il bilancino d’una burocratica par condicio. Sapendo bene che la stampa è libera solo quando essa stessa ha più voci, e queste voci sono esse stesse libere. Non fa mai male ricordarlo, in una città come la nostra. In una città in cui la carta stampata continua malinconicamente ad avere una voce sola.


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