Risale al 2011 il tentativo di ricostruire il quartiere popolare di San Filippo Neri trasformando quello che è un vero e proprio ghetto in un nuovo quartiere Matteotti, in cui la gente avrebbe potuto sentirsi parte di una città e non periferia abbandonata. I moti si sono conclusi con un nulla di fatto, ma il progetto è stato apprezzato anche all'estero
Progetti irrealizzati, c’era una volta il nuovo Zen L’idea caduta nel vuoto che miete riconoscimenti
Era il 2011 quando un gruppo di professionisti, affascinati dalle parole dell’architetto Ettore Maria Mazzola che in una conferenza demoliva con le sue idee il Corviale di Roma, bocciandone l’idea concettuale e proponendo un’alternativa valida, si era innamorato delle parole del professore romano dell’università statunitense di Notre Dame tanto da commissionargli un progetto simile, ma applicato allo Zen di Palermo. L’idea colpì Mazzola che si mise subito al lavoro per cancellare quell’idea, tipica degli anni ’60, epoca in cui è stato costruito lo Zen – così come il Corviale – che voleva «tradurre in urbanistica – queste le parole di Mazzola – l’ideale della nuova Gerusalemme, la città della giustizia e dell’equità assoluta» e azzerare le classe sociali.
Di fronte al progetto, arricchito dagli splendidi disegni a mano dei professore, i professionisti, che si erano nel frattempo raggruppati sotto il nome di Noi per lo Zen, si erano autotassati e avevano lanciato una sottoscrizione per poter coprire i costi di progettazione, che prevedeva anche la demolizione dei casermoni di San Filippo Neri. Demolizioni che, però, non videro mai una sola ruspa entrare in azione per far diventare lo Zen un altro quartiere Matteotti. Il progetto per cui l’architetto Vittorio Gregotti ha ricevuto molteplici riconoscimenti, finendo anche sui libri accademici mentre nella struttura, una volta costruita, si è creata una nuova concezione di ghetto moderno, è rimasta lì. Anche se pure il progetto di riqualificazione di Mazzola non è passato inosservato, tanto da raccogliere apprezzamenti e premi.
I casermoni di Gregotti avrebbero dovuto lasciare il posto a case da quattro piani, con il piano terra destinato a ospitare attività o servizi. Una demolizione che a molti sembrava fantascientifica, ma che invece era stata pianificata in tutto e per tutto e senza nuocere ai residenti, che sarebbero potuti essere riallocati man mano che la ricostruzione, che sarebbe dovuta partire dalle zone sgombre, fosse andata avanti. Ci sarebbero state piazze e chiese e centri di aggregamento attorno ai quali fare scorrere la vita di un quartiere che non vuole essere ghetto. «Ho voluto dimostrare, attraverso un progetto – conclude Mazzola – che seguendo la prima normativa sull’edilizia popolare, quella del 1903, non solo è possibile riqualificare le aree, ma anche generare guadagni pubblici tramite la vendita di alcuni immobili e dei negozi».