Stato-mafia, tutti condannati tranne Mancino «Stato non ha paura di processare se stesso»

«Lo Stato non ha paura di processare se stesso». È questo uno dei primissimi commenti del pm Nino Di Matteo dopo la lettura della sentenza pronunciata dalla seconda corte d’assise di Palermo in un’aula bunker del Pagliarelli gremita di giornalisti e semplici cittadini. Tutti condannati, tranne l’ex senatore Nicola Mancino, che doveva rispondere di falsa testimonianza. La pena più alta va al cognato di Totò Riina, Leoluca Bagarella, condannato a 28 anni. Seguono Antonio Cinà, Marcello Dell’Utri, Mario Mori e Antonio Subranni condannati a 12 anni, mentre Giuseppe De Donno e Massimo Ciancimino sono stati condannati a otto anni, quest’ultimo per la sola calunnia ai danni dell’ex capo della polizia Gianni Di Gennaro. Condannati anche a pagare altissimi risarcimenti alle parti civili e le spese processuali.

Così ha deciso la corte, presieduta dal giudice Alfredo Montalto, riunita in camera di consiglio da lunedì scorso. Dopo quasi cinque anni e oltre duecento udienze, si conclude un processo che ha segnato un’epoca. Quello che ha visto sedere sullo stesso banco degli imputati, uomini delle istituzioni, delle forze dell’ordine e di Cosa nostra. Un processo per stabilire se sia esistita o meno una trattativa fra lo Stato e la mafia, un patto in tutti i sensi, una negoziazione per porre fine al periodo stragista voluto da boss e padrini. Una fine che sarebbe costata molto allo Stato, che in cambio avrebbe dovuto garantire una linea più morbida in fatto di pene e 41 bis.

Nove gli imputati totali, togliendo Bernardo Provenzano e Totò Riina, morti nel 2016 e nel 2017; e anche l’ex ministro Calogero Mannino, processato in abbreviato e assolto in primo grado. Restano, quindi, l’ex capo del Ros dei carabinieri Antonio Subranni e il suo vice dell’epoca Mario Mori, accusati insieme all’allora capitano Giuseppe De Donno e all’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri di minaccia a corpo politico dello Stato. E l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, Leoluca Bagarella – cognato di Riina – e Antonino Cinà; Massimo Ciancimino, testimone chiave del processo, accusato di calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni Di Gennaro e di concorso esterno in associazione mafiosa, reato per cui è intervenuta la prescrizione. Così come per Giovanni Brusca.

    

«Non hanno importanza quelli che sono stati gli attacchi a noi, ha importanza che una corte d’assise, dopo cinque anni di processo, abbia riconosciuto che una parte dello Stato trattava con Cosa nostra nel periodo delle stragi e rimetteva al governo dello Stato le richieste di Cosa nostra – continua a dire il pm Di Matteo -. Questa è una sentenza che per la prima volta consacra a livello così alto, così esteso, quali sono stati i rapporti esterni di Cosa nostra anche con le istituzioni nel momento delle stragi ed è molto significativo che la sentenza di oggi, e probabilmente anche le precisazioni della corte lo hanno evidenziato, abbia riguardato un periodo in cui sono stati in carica tre governi diversi, alcuni degli imputati sono stati condannati per reato commesso mentre erano in carica i governi Andreotti e il governo Ciampi, altri sono stati condannati (Dell’Utri ndr) per aver svolto la funzione di tramite fra Cosa nostra e Berlusconi anche dopo il 1992. Credo sia un momento in cui c’è una pronuncia giudiziaria importantissima sulla qualità ed esclusività dei rapporti dei corleonesi con lo Stato. Spero e credo che possa costituire anche uno stimolo per continuare le indagini sulle stragi del ‘93 e per cercare di acclarare se siano opera di Cosa nostra o di soggetti estranei a Cosa nostra. Adesso c’è una sentenza, le cui motivazioni saranno sicuramente illuminanti, che dovrebbe servire da ulteriore stimolo per tutti quelli che ne sentono la necessità a livello giudiziario e politico per fare definitiva chiarezza sulle stragi. Il lavoro non è finito».

Sorrisi e soddisfazione anche da parte del pm Roberto Tartaglia: «È un processo che doveva essere celebrato e lo è stato. Polemiche? Non ce n’è nessuna in questo momento», si limita a dire. Mentre Vittorio Teresi, che ha chiesto espressamente di continuare a essere parte del pool di magistrati del processo trattativa, ha bacchettato la stampa, che a suo dire «ha seguito male questo processo», mentre esce fra gli applausi e i cori di incitamento dei cittadini accorsi questo pomeriggio per ascoltare la lettura della sentenza.

«È una sentenza che riteniamo profondamente giusta – commenta poi l’avvocata Nicoletta Piergentili Piromallola, che rappresenta il senatore Mancino -. La commistione fra politica e giustizia è insidiosa, ma i giudici non si sono fatti fuorviare. È riabilitato Mancino, che ha sofferto da innocente una pena lunga quanto questo processo. Le altre condanne sono state pesanti, ci sarà un seguito per le altre posizioni, le ricostruzioni storiche e politiche sono diverse da quelle giudiziarie. Per me è importante anche che sia stato riabilitato, oltre a Mancino, anche un’attività politica di quegli anni che ha dovuto fronteggiare una situazione veramente pesante e terribile che forse non si è più ripetuta».

Sorpresa e sgomento da parte dell’avvocato Basilio Milio, che rappresenta gli ex vertici del Ros, Mori e Subranni, che non si aspettava una simile conclusione: «Aspettiamo di leggere le motivazioni per essere precisi nelle valutazioni, però è chiaro che 12 anni già la dicono lunga su quella che è stata la loro posizione. Io però sono contento oggi, c’è un barlume di contentezza in un grande sconforto, perché so che la verità è dalla nostra parte, ma di sbigottimento. Barlume di contentezza perché oggi comunque è un giorno di speranza, possiamo sperare che finalmente dopo cinque anni in appello ci sarà un giudizio. Perché questo è stato un pregiudizio – continua – caratterizzato dall’adesione alle istanze e alle richieste della procura e quasi mai della difesa. La prova del nove? Non sono stati ammessi duecento documenti della difesa e oltre venti testimoni, tra i quali c’erano anche loro colleghi, dalla dottoressa Boccassino al dottor Di Pietro. Non ho ancora comunicato al mio assistito, lo farò appena mi risponderà al telefono. Una sentenza dura, che non sta né in cielo e né in terra, perché questi fatti sono stati già smentiti da quattro sentenze definitive».


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