«La narrazione di un dramma di amore familiare divenuto, a un tratto, storia di condivisione nazionale». Si potrebbe riassumere con le parole dell’avvocato Ivan Albo l’udienza di ieri del processo per l’omicidio volontario aggravato del parà siracusano Emanuele Scieri. Ad essere ascoltati come testimoni sono stati la mamma Isabella Guarino e il fratello Francesco – entrambi assistiti da Albo e dalla collega Alessandra Furnari – del militare ritrovato cadavere all’interno della caserma Gamerra di Pisa nell’agosto del 1999, tre giorni dopo la morte. Oltre ai familiari, sono stati sentiti Carlo Garozzo, storico amico di Scieri e presidente dell’associazione Giustizia per Lele e Sofia Amoddio, la presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso grazie alla quale il procedimento è stato riaperto dopo 22 anni. Imputati sono gli ex caporali Alessandro Panella e Luigi Zabara. Sono stati invece assolti in primo grado il sottufficiale dell’esercito Andrea Antico per lo stesso reato e gli ex ufficiali della Folgore Enrico Celentano e Salvatore Romondia, che erano accusati di favoreggiamento. Sentenza per cui la procura ha fatto appello.
«Mio figlio aveva un alto senso del dovere e, per questo, è andato a fare il servizio militare con l’obiettivo di diventare avvocato al suo ritorno». È arrivata in sedia a rotelle nell’aula del tribunale di Pisa la mamma di Scieri e, commossa, ha parlato di suo figlio che a 26 anni, dopo la laurea in Giurisprudenza, aveva dovuto mettere in pausa la propria vita per andare a fare il servizio militare di leva che, all’epoca, era obbligatorio. «Per tutta la famiglia era un momento felice», sottolinea la donna che, come tutti i familiari e gli amici, non ha mai creduto all’ipotesi del suicidio o nemmeno a quella di una caduta accidentale. Dall’ultima conversazione del 13 agosto in cui, con tono allegro, Scieri chiede alla madre: «Indovina dove sono?» mentre si trova sotto la torre di Pisa alla preoccupazione dei giorni dopo quando il suo cellulare risulta spento, fino al momento in cui alla porta della casa al mare di Noto (nel Siracusano) bussano i carabinieri. «Emanuele aveva problemi? Era depresso?», chiedono i militari a lei e al marito (deceduto nel 2011) prima di annunciare che il giovane era stato trovato senza vita ai piedi della torretta di asciugatura dei paracadute in caserma. L’indomani, con un volo militare, i coniugi arrivano a Pisa. Ad accoglierli in caserma è il colonnello Pierangelo Corradi che, però, «non ci ha dato nessuna spiegazione di quanto fosse accaduto. Ma ha aggiunto delle parole che mi sono rimaste impresse – ricorda Guarino – “Non è che tutti i ragazzi sono come suo figlio“». Anche questa frase resterà senza spiegazione. Una, invece, prova a darla al fratello Francesco il pubblico ministero Giuliano Giambartolomei: «Mi disse: “Suo fratello si è suicidato“». Un’ipotesi a cui loro non hanno mai creduto e che poi è stata smentita anche dai risultati dell’autopsia fatta a vent’anni dalla morte.
È stata la presidente Sofia Amoddio a illustrare il lavoro della commissione parlamentare d’inchiesta: 76 persone ascoltate in 51 sedute, seimila pagine di documenti con l’intreccio tra quanto già acquisito nel 1999 dalla magistratura e i nuovi elementi venuti fuori dalle audizioni. «Abbiamo fatto una complessa attività di indagine a 360 gradi – racconta Amoddio – senza nessuna ipotesi precostituita. All’interno della commissione non ci sono stati contrasti perché tutti avevamo come solo obiettivo la ricerca della verità e della giustizia per Lele».
Lo stesso obiettivo con cui è nata, il 10 settembre del 1999, l’associazione Giustizia per Lele. La cui richiesta di costituzione come parte civile al processo è stata rigettata perché «l’associazione è nata dopo la morte di Scieri». Il presidente Carlo Garozzo ha raccontato a processo di quando, il 31 agosto del ’99, tutti gli amici del parà sono arrivati a Pisa attraversando lo Stivale in autobus. «Quando siamo arrivati in caserma – ricorda – il comandante ci ha detto che potevamo entrare per riporre un fiore sotto la torretta di asciugatura dei paracadute (il luogo dove era stato ritrovato il cadavere, ndr) ma solo a condizione di togliere lo striscione con la scritta Giustizia per Lele». Lo stesso che ancora oggi conservano gli amici che all’epoca si erano riuniti per cercare la verità sulla morte di Scieri. «L’associazione è nata anche perché – chiarisce Garozzo – all’epoca, nella politica e nell’opinione pubblica, Emanuele era passato in secondo piano. Al centro i battiti su difendere o attaccare la Folgore, mantenere o eliminare il servizio militare», chiarisce l’amico che ha ricordato di come ha saputo della morte di Scieri. «Ho ricevuto una telefonata da un amico che mi ha detto che si era diffusa questa voce. Ho acceso la tv e visto sul televideo la notizia. Il cognome, però, era sbagliato seppur molto simile. Mi sono sentito sollevato». Salvo poi realizzare che si trattava di un refuso.
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