«Un coltello senza manico». Questa l’immagine utilizzata dalla procuratrice generale di Caltanissetta Lia Sava all’inizio della requisitoria del processo di secondo grado in cui la principale imputata è Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo. L’ex magistrata, condannata in primo grado a otto anni e mezzo di carcere, è accusata di corruzione. Una figura, quella di Saguto, che ha rappresentato per anni uno degli avamposti dell’antimafia. Nel processo di primo grado sono stati condannati anche i professionisti che a vario titolo sono accusati di avere fatto parte di un presunto cerchio magico al centro della quale stava la giudice, radiata dalla magistratura: l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, l’ex professore della Kore di Enna Carmelo Provenzano, l’ex prefetta di Palermo Francesca Cannizzo. Saranno giudicati in secondo grado anche il marito di Saguto, Lorenzo Caramma, e il figlio Emanuele; Roberto Nicola Santangelo e Walter Virga. Giudizio anche per Roberto Di Maria, preside della facoltà di Giurisprudenza di Enna, Maria Ingrao e Calogera Manta.
«Questo non è un processo all’antimafia o a una certa antimafia. Abbiamo solo fotografato alcune condotte illecite. E vi assicuro che è stato un processo doloroso anche per noi, non solo per gli imputati», ha detto la procuratrice generale rivolgendosi alla Corte. «Non abbiamo mai subito alcuna tentazione etica o moralizzatrice, abbiamo solo fatto il nostro dovere di magistrati requirenti. Io ho seguito questo processo anche come Procuratore facente funzione – ha ricordato Sava – Le intercettazioni, sia quelle ambientali che telefoniche, non solo venivano ascoltate dalla polizia giudiziaria, ma i colleghi che in primo grado si occupavano del procedimento, le riascoltavano tutte, anche queste per l’estremo scrupolo che avevamo nel maneggiare questo materiale. Si tratta di intercettazioni ascoltate e riascoltate che hanno dato rappresentazione delle cointeressenze e dei legami degli imputati».
L’inchiesta che ha portato alla scoperta del presunto giro corruttivo che si sarebbe alimentato partendo dall’amministrazione dei beni sequestrati dal tribunale di Palermo è nata da un’intercettazione di un colloquio avvenuto a Gela, tra un dipendente di un autosalone e un finanziere. «Le indagini di questo processo non sono scaturite da nessun input giornalistico, le indagini che hanno dato origine a questo processo hanno una genesi di tutt’altra e più consistente matrice rispetto al sollecito massmediatico», ha affermato la procuratrice generale. Il riferimento va a Pino Maniaci, il direttore di TeleJato che per anni ha trattato da vicino le vicende inerenti ai beni sequestrati nel Palermitano.
Nel corso della requisitoria, la procuratrice ha fatto riferimento alla figura di Claudia Rosini, magistrata in servizio nello stesso ufficio di Saguto. «Non appartiene, in astratto, a nessuna fazione dell’antimafia – ha detto Sava – Una testimonianza molto importante perché descriveva ciò che stava avvenendo. A giugno del 2015 quando era ancora tutto coperto dal segreto investigativo, Rosini aveva presentato una domanda di trasferimento ad altra sezione perché avvertiva un senso di isolamento e di disagio all’interno della sezione Misure di prevenzione». Rosini, nel corso della testimonianza davanti ai giudici, ha dichiarato di essersi accorta di non essere «coinvolta nelle procedure di prevenzione più complesse, che venivano gestite dal collegio in maniera differente». Differente rispetto a come, secondo la procura generale di Caltanissetta, andavano gestite le misure di prevenzione.
La requisitoria dell’accusa proseguirà il 10 febbraio. Dopo quell’udienza, Lia Sava andrà avanti anche il 24 febbraio, quando saranno formulate le richieste di condanna o assoluzione. Poi spetterà alle parti civile e alle difese sostenere le proprie ragioni.
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