Per l'uomo la procura di Catania aveva chiesto la condanna all'ergastolo ma la corte d'assise ha scelto una pena più lieve. L'imputato ha sempre respinto le accuse parlando di «allontanamento volontario». L'omicidio, secondo la procura, sarebbe stato consumato al termine di una lite nella villetta di San Gregorio
Processo Di Grazia, marito condannato a 25 anni Accusato di avere ucciso la moglie Mariella Cimò
Venticinque anni di reclusione per omicidio e occultamento di cadavere. È la sentenza pronunciata nella tarda mattinata di oggi dalla corte d’assise di Catania nei confronti di Salvatore Di Grazia, l’81enne accusato di avere ucciso la moglie Mariella Cimò. Per l’unico imputato del processo la procura etnea, rappresentata in aula dal magistrato Angelo Busacca, aveva chiesto la condanna all’ergastolo. Una storia, quella della coppia che alle spalle aveva 43 anni di matrimonio, ricca di colpi di scena e lati oscuri finita sotto i riflettori della trasmissione televisiva Quarto grado. Uno dei nodi è stato quello del cadavere, che non è stato mai ritrovato nonostante la sparizione risalga al 25 agosto 2011. Di Grazia presentò la denuncia soltanto il 5 settembre e ha sempre respinto ogni accusa parlando di un «allontanamento volontario» della signora Cimò.
Come dimostrato dalle telecamere di sorveglianza, poste nelle vicinanze della villetta di San Gregorio, la donna quel giorno di agosto non era mai stata ripresa mentre usciva dall’abitazione o dal retro della stessa. Un dirupo impervio con una consistente quantità di sterpaglia e rovi che ha impedito anche agli investigatori l’accesso in un apposito sopralluogo. Per Di Grazia, però, i carabinieri avrebbero fatto una «sceneggiata». Per l’imputato la difesa aveva chiesto l’assoluzione sottolineando la mancanza di prove rilevanti a suo carico. Una posizione diametralmente opposta da quella dell’accusa. Secondo la quale Di Grazia avrebbe ucciso la moglie al culmine di una lite e successivamente si sarebbe adoperato per sopprime il cadavere.
Negli ultimi periodi c’erano stati, secondo l’accusa, dei forti contrasti tra marito e moglie, in particolare sulla gestione di un autolavaggio self service per autovetture di Aci Sant’Antonio, di proprietà di Cimò e nel quale lavorava Di Grazia. La donna, stando alla ricostruzione investigativa, lo voleva vendere, mentre il marito era assolutamente contrario, anche perché, sostengono gli inquirenti «utilizzava gli uffici per incontri legati a relazioni extraconiugali». Frequentazioni che lo stesso imputato ha confermato durante un’udienza del 2014: «Può darsi – raccontava – che qualche volta portai delle donne nell’appartamento antistante l’autolavaggio. Gli incontri avvennero prima, durante e dopo la scomparsa di mia moglie».