Il killer dei Santapaola Maurizio Avola e l'ex reggente dei Laudani Giuseppe Di Giacomo raccontano particolari diversi rispetto alle testimonianze del passato. In un'udienza contrassegnata dai tanti «non ricordo» e da varie contestazioni di accusa e difesa. Viene fuori anche il piano per uccidere il giornalista Andrea Lodato
Processo Ciancio, due pentiti cambiano versione dei fatti «Com’è possibile? Adesso sono più sereno, chiedo scusa»
«Siamo sicuri che non l’ho detto? Nemmeno nel 1994?». Maurizio Avola inverte le parti e, da pentito, arriva a chiedere lumi al pubblico ministero Antonino Fanara. Le domande, di solito, le fa l’accusa. Ma nel processo per concorso esterno in associazione mafiosa a carico dell’editore monopolista dell’informazione catanese Mario Ciancio Sanfilippo qualcosa non è andato secondo copione. Il motivo è rintracciabile in una serie di particolari inediti che l’ex killer della famiglia Santapaola-Ercolano ha sviscerato nel corso dell’ultima udienza. Fatti non contenuti in un vecchio verbale, risalente al 2009, quando lo stesso Avola era stato sentito dai magistrati della procura di Catania. «Marcello D’Agata mi disse che Ciancio era protetto dai Corleonesi», spiega il pentito per la prima volta. E quando il pm chiede maggiori dettagli ecco che il killer del giornalista Pippo Fava prosegue: «Ciancio aveva fatto un articolo grave e si era deciso di fare un attentato. Ne parlammo con Eugenio Galea, che era il nostro referente con contatti su Palermo, e Bernardo Provenzano gli disse di non toccarlo». Nel 2009 però la storia era diversa. A raccontarla sempre D’Avola, citando l’arrabbiatura del boss Pippo Ercolano per un articolo pubblicato su La Sicilia. «Lei – dice il pm riferendosi a D’Avola – ci aveva detto che Ercolano e Ciancio si erano chiariti. Non era stato così specifico con questa storia dei corleonesi».
La domanda a questo punto sorge spontanea: «Perché non ci ha raccontato prima di questi fatti?». In collegamento video il pentito, ripreso di spalle mentre indossa una polo maniche corte rossa, replica: «Io non mi ricordo di questo verbale. Ma siamo sicuri che non l’ho detto? Nemmeno nel 1994?». La risposta è negativa e l’ex killer continua a rimanere vago: «Può essere che non mi ricordavo l’accaduto. Non saprei signor procuratore». Subito dopo si passa ad altre questioni e tra i ricordi di Avola finisce il giornalista Andrea Lodato. Oggi firma di punta de La Sicilia, molti anni fa finito nel mirino della famiglia Santapaola. Il cronista, stando al racconto del killer, doveva morire. Troppo grave avere raccontato la storia di quattro ragazzini: Benedetto Zuccaro, Giovanni La Greca, Riccardo Cristaldi e Lorenzo Pace. Colpevoli di avere scippato la borsetta alla persona sbagliata, ovvero la mamma di Nitto Santapaola, e per questo motivo uccisi da Cosa nostra: «Lo abbiamo pedinato nella zona della scogliera di Catania, ma poi non se ne fece nulla», conclude Avola riferendosi a Lodato.
Dopo essere congedato dall’accusa, al microfono arriva una domanda dell’avvocato Goffredo D’Antona, legale dei fratelli Gerlando e Dario Montana. Si torna al 1994, quando Avola si pente e finisce sulle prima pagine dei giornali. Il killer, stando alle cronache dell’epoca de La Sicilia, si sarebbe autoaccusato dell’omicidio del giornalista Pippo Fava e di quello del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. L’affinità con quest’ultimo agguato viene però smentita dai magistrati di allora. Una falsità clamorosa che in tanti hanno visto come l’obiettivo di gettare discredito sul pentito. «Si ricorda di questa storia?», chiede D’Antona. «L’ho letta sul giornale – replica il pentito – ma ero già in un località riservata, lontano da Catania».
I cambi di versione però non si esauriscono con Avola. Prima di lui tocca a Giuseppe Maria Di Giacomo. Spietato killer del clan Laudani, poi diventato reggente. Tornano negli ultimi anni sulle pagine delle cronache nazionali perché inserito nella lista dei nomi del cosiddetto protocollo Farfalla. Una sorta di patto, tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e i servizi segreti, che avrebbe previsto l’avvicinamento degli 007 a otto boss reclusi al 41bis per ottenere informazioni in cambio di somme di denaro. La storia di oggi però riguarda il furto subito in villa da Ciancio nel lontano 1993. I particolari erano stati sviscerati da un altro pentito, Giuseppe Catalano, durante l’udienza precedente. In cui aveva fatto riferimento a un incontro, avvenuto in una villa di San Giovanni La Punta, alla presenza di Aldo Ercolano e dello stesso Di Giaicomo. L’obiettivo? Restituire la refurtiva a Ciancio, perché «amico della famiglia».
«Non ricordo la presenza di Ercolano – taglia corto Di Giacomo – ma quella di Santo Battaglia e Marcello D’Agata». Nel 2009 però la storia era diversa e il pentito citava il nipote di Nitto Santapaola come interessato a tornare indietro la roba di Ciancio: «Oggi ho un ricordo più lucido di allora. Non avevo le idee chiare, ero turbato e venivo da un lungo periodo di isolamento». La versione però non combacia nemmeno quando si parla del riscatto. Una somma di 50 milioni di lire che Ciancio aveva promesso, con tanto di articolo su La Sicilia, per ritrovare la merce. Il tramite, nel verbale del 2009, non era stato indicato. «Se ne sono occupati alcuni affiliati del Villaggio Sant’Agata», spiega durante l’udienza. Il copione è lo stesso anche quando c’è da indicare chi ha informato l’ex reggente dei Laudani del furto. «Come l’ha saputo?», chiede il pm Fanara. «Tramite Marcello D’Agata». Nove anni fa la risposta era però stata diversa.
Davanti a un simile spartito, passano quasi in secondo piano gli altri due collaboratori chiamati a deporre. Da un lato Natale Di Raimondo, ex capo dei Santapaola nel quartiere Monte Po, e dall’altro Francesco Campanella, affiliato a Cosa nostra palermitana e fedelissimo del boss di Villabate Nino Mandalà. «Ciancio? Mai conosciuto ma ero a conoscenza dell’amicizia con la famiglia Santapaola – spiega il boss catanese – Me lo ha raccontato in carcere Pippo Ercolano. Avevano anche spostato un giornalista allo Sport perché aveva scritto un articolo che non era piaciuto». L’accusa a questo punto chiede lumi sul nome, ma la risposta è la stessa di tante sentite fino a questo momento: «Non ricordo». Campanella invece la butta sulla politica, forte delle sua militanza nella Dc prima e nell’Udeur di Clemente Mastella poi. «Portai a Catania Paolo Marussig per incontrare Raffaele Lombardo». L’ex vertice autonomista, bollato erroneamente dal testimone come sindaco di Catania, avrebbe tenuto un faccia a faccia per conoscere il progetto di un centro commerciale nell’area di Catania: «Si mise a disposizione e si scambiarono i contatti».