Potere politico ed arte del governare nella Cina contemporanea

Nell’autunno del 1960 un delegazione italiana partì per la Cina dove era stata invitata dal governo cinese. Non era la prima delegazione, nei mesi precedenti esponenti del PCI erano stati invitati a un viaggio di esplorazione sulla realtà cinese: i commenti di Franco Fortini e Gian Carlo Pajetta erano già stati pubblicati e certamente erano noti a coloro che parteciparono alla delegazione del 1960.
Elemento di novità fu l’insistenza cinese perché facessero parte di questa delegazione anche esponenti del mondo cattolico e non solamente comunisti. Probabilmente fu questa la ragione per cui – attraverso una serie di rifiuti dolorosi politicamente necessari (non era facile allora per un leader cattolico l’andare in Cina dove la chiesa conosceva momenti drammatici) – la proposta giunse sul tavolo di un professore di Liceo, erede di una famiglia di latinisti, fin da giovane appassionato della Cina e dei problemi della sua emancipazione e evangelizzazione. Conserviamo non il suo diario ma il testo di una conferenza fatta a Livorno alcuni anni dopo, al rientro da un secondo viaggio in Cina alla vigilia della Rivoluzione culturale. Si tratta di un documento interessante, espressione di una nuova sensibilità verso i paesi del Terzo mondo – come usava dire – e l’affermarsi di un differente approccio nei confronti delle altre culture. Nulla – comunque – che non fosse ormai emerso con la forza dei cambiamenti epocali dal motu proprio Superno Dei nutu del 5 giugno 1960 con cui papa Giovanni XXIII diede inizio ai lavori preparatori e al dibattito preconciliare del Concilio Vaticano II.

Sergio Cammelli, mio padre, restò fortemente impressionato dai quaranta giorni passati in Cina. L’entusiasmo, l’orgoglio, il senso di misura e di soddisfazione personale che i suoi interlocutori gli trasmisero costruirono davanti ai suoi occhi una realtà al tempo stesso dura e generosa. Dura per le difficoltà che doveva affrontare, generosa per quella gioia «che non chiede» propria di chi vive l’emozione profonda del senso di una missione da compiere, per il bene proprio e per quello dell’umanità.
«È questo – disse alcuni anni dopo nella conferenza stampata dai Quaderni di Corea – l’interrogativo più angoscioso che assilla chi abbia contattato la Cina di oggi: c’è sotto una terribile violenza, c’è una forma di lavaggio del cervello, ci sono delle persecuzioni poliziesche che tolgono a ciascuno la possibilità di reagire? Non è impossibile. Oppure questa gente è sincera ed accetta la realtà di oggi e se non perché la considera buona, almeno perché la considera molto migliore della precedente?» Tuttavia, concludeva: «Quando, a proposito di Cina, si parla di costrizione credo che si cada in errore. Noi diamo a questa espressione un significato preciso e, per noi Occidentali, ripugnante, ma per i cinesi è un’altra cosa. In Cina non si fa nulla per costrizione ma tutto per convinzione: i capi della Cina non costringono, convincono.»
Qualche mese prima Gian Carlo Pajetta, uomo di rigore leggendario e di grande competenza politica, aveva svolto una considerazione analoga nella sua relazione del 1959: «… in un momento di acutizzazione, poteva esserci una tentazione, una spinta verso dei mezzi amministrativi, verso dei mezzi burocratici, verso una riduzione della partecipazione di massa e democratica alla via sociale. Ma il partito pose invece il problema in un altro modo, per cui soprattutto, e anche nel momento della durezza della lotta, venne accentuato il momento democratico… Era necessaria una partecipazione dei milioni di membri del partito e dei milioni di senza partito.» Come Cammelli, anche Pajetta rimane colpito da questa mobilitazione e si domanda se e quanto essa sia spontanea: «Si ha l’impressione – afferma – che la mobilitazione popolare sia effettiva in ogni campo della vita sociale. Pare che tutti vadano all’assalto anche con le bandiere, con i tamburi; ovunque vedete gente che si reca a lavorare; i ragazzi, gli studenti, le donne, e dovunque si ha l’impressione di un lavoro che rende.»

Negli stessi anni, con una differente storia personale e differente sensibilità politica, procedevano gli studi di Enrica Collotti Pischel, le cui valutazioni di quei giorni sulla rivoluzione cinese si concentrarono in uno studio giunto alle stampe nel 1965, per Giulio Einaudi.
«Sul piano morale e sociale il Grande balzo in avanti doveva rompere nella sostanza il condizionamento negativo dell’arretratezza ed allontanare dalla Cina il peso umano ed economico… Ciò doveva avvenire sulla base della mobilitazione politica ed ideologica delle masse, attraverso una vera e propria campagna di condizionamento psicologico reciproco e attraverso la sistematica diffusione di parole d’ordine».
Sono passati molti anni da quando vennero scritte queste parole, quasi cinquanta.
Oggi sappiamo che in quegli anni la Cina popolare attraversò uno dei suoi momenti più duri: la svolta politica voluta da Mao Zedong conosciuta come Grande balzo in avanti mise in moto un complesso processo di ristrutturazione delle campagne e dell’industria il cui risultato – combinandosi con calamità naturali prima nascoste e poi molto enfatizzate – fu una catastrofe umanitaria di dimensioni apocalittiche. Secondo innumerevoli fonti ufficiali cinesi dei nostri giorni “oltre cento milioni uomini sopportarono danni permanenti”, eufemismo che – si pensa – deve servire a mascherare all’interno di una più ampia definizione un nucleo di deceduti per fame e per mancanza di nutrizione che in nessuna interpretazione è inferiore ai venti milioni e superiore ai quaranta. Si tratta in altre parole di una tragedia di dimensioni vicine alla somma dei caduti civili e militari dei paesi alleati nel corso della IIa Guerra mondiale; una cifra da otto a dieci volte più grande di quella degli ebrei sterminati nei campi di concentramento; quasi cinquanta volte più grande a quella dello sterminio degli Armeni.

Si dirà che Gian Carlo Pajetta non può essere accusato di non avere visto una carestia che si sarebbe verificata qualche anno dopo: tutt’al più gli si può muovere l’appunto di non avere colto il carattere visionario, irreale dell’impossibile disegno politico si stava preparando. Si dirà che Cammelli viaggiò in una Cina preparata per lui dal PCC e dunque non fu messo in condizioni di vedere la carestia mentre era in corso. Tuttavia, qualche anno dopo, farà un rapido accenno a raccolti sfavorevoli per cui «la stampa occidentale aveva parlato con manifesto compiacimento di terribile carestia, di fallimento delle comuni rurali, di ribellione nella popolazione.» Enrica Colloti Pischel, se fosse ancora insieme a noi, probabilmente ci spiegherebbe che in quegli anni tante cose non erano per niente chiare e che non era così facile leggere – come potrebbe esserlo oggi – le corrispondenze del New York Times di Tillman Durdin sulle condizioni disastrose della campagna cinese, e sul fatto che in quei giorni in Cina chi poteva contare su 600 calorie al giorno poteva giudicarsi fortunato.

Tuttavia se è vero che ognuna delle fonti citate ha una sua articolata e legittima difesa personale, le tre testimonianze citate – nel loro insieme – pongono un serio problema storico. C’è nelle testimonianze oculari di Pajetta e Cammelli – così diversi per storia e per formazione culturale – un analogo esterrefatto racconto di un entusiasmo che lascia attoniti, che non riesce facile spiegare. Ed è questo entusiasmo che si riflette anche nell’opera di Enrica Pischel pur acquisendo i contorni di una riflessione politica più algida, quasi scientifica. Oggi, in sede di riflessione storica, la comprensione di quanto avvenne nel corso del Grande balzo in avanti finisce col diventare centrale per definire con migliore precisione cosa avvenne nel profondo di quelle esperienze personali ed intellettuali, cosa impedì di cogliere ciò che si stava preparando, o che stava avvenendo, o che era avvenuto. Tre intellettuali italiani viaggiano e scrivono di Cina nel 1958, 1960, 1965: che nessuno dei tre abbia intuito, abbia veduto o riflettendoci a posteriori abbia giudicato giusto ricordare… è un fatto che ha una sua importanza che sarebbe profondamente errato sottovalutare.
Se è vero che talora tante testimonianze di quel tempo sono reticenti, se è vero che occasionalmente ricorrono a metafore che ormai da tempo sono state decodificate (la “durezza dello scontro politico” cui fa riferimento Pajetta), è altresì vero che nessuno dei tre testimoni fu in malafede: l’attenzione di Sergio Cammelli e la passione rivoluzionaria di Enrica Collotti Pischel o di Gian Carlo Pajetta non avrebbero mai tollerato di conoscere i contorni di una tragedia di simili proporzioni e di tacerla. Davvero non videro, non seppero: forse intuirono qualcosa, ma non ne ebbero chiaro i contorni o le dimensioni. E questo, naturalmente, è un problema storiografico la cui complessità va molto oltre la ricerca di scusanti o l’istruzione di processi sommari.
Un’altra evidenza che reclama di essere accettata insieme a molte altre è quella che non era così impossibile saperlo. Nella biblioteca di mio padre ho rintracciato testi che furono necessariamente comprati prima della partenza del 1960 che non potevano contenere dati sul Grande balzo in avanti, ma ne avevano – e gravissimi – sulla condotta della guerra di liberazione e sulla politica interna del partito negli anni compresi tra il 1949 e il 195412. Altri testi di lingua inglese non erano certamente sconosciuti se giunsero, come giunsero, ad essere acquisiti in quegli anni dalle nostre biblioteche. Né è oggi possibile dimenticare le prime pagine dei giornali nazionali, con le foto dei sacchi di grano accumulati alla frontiera con la Cina e rifiutati per via della scritta che riportavano – Dono del popolo americano. Ci fu chi disse, dunque, ma non venne creduto.

In questi nostri anni prevale, di fronte a questi profondi fraintendimenti della realtà cinese, un atteggiamento assolutorio che ama giustificare i silenzi di quegli anni per una sorta di impossibilità a sapere: le notizie dalla Cina sarebbero giunte a fatica e in modo poco affidabile. Fossero state espressione di fonti più attendibili sarebbero state credute. Naturalmente tutto è possibile: quando racconto ai miei studenti che all’inizio degli anni ’90 La Repubblica se ne uscì – durante una delle ricorrenti crisi sanitarie dell’India – con il titolo in prima pagina «L’ANGELO STERMINATORE È SBARCATO A LONDRA – TERRORE IN EUROPA – LA PESTE ALLE PORTE» non mi credono e pensano che li stia prendendo in giro. Sono dovuto andare negli archivi e mostrarla loro perché accettassero di ricredersi.
È un fatto che le notizie sulla tragedia innescata dal Grande balzo in avanti, giunsero in Italia, giunsero nel mondo. Ma oggi si stenta a ricordare – ovvero lo si ricorda a fatica e poco volentieri – quale aprioristico atteggiamento caratterizzava in quegli anni l’accettazione o il rifiuto di una notizia, di persone, o fatti. La solidarietà che alcuni anni prima aveva ottenuto – certo insieme anche a dissenso – l’invasione dell’Ungheria oggi non è creduta possibile dagli studenti che pensano che ci sia dietro il ricordarla una qualche forzatura polemica, anticomunista. Pare provocatorio ricordare quanti membri del PCI di allora tacquero, o non osarono esprimere la propria condanna. O affidarono la propria riprovazione a testi criptici che potranno avere fatto la gioia dei filologi, ma certamente non quella delle folle.
E così – in questa sorta di giustificazionismo storico la cui funzione di assolvere non interessa ormai più nessuno – si consuma l’oscuramento di un fenomeno che è essenziale per comprendere la natura del governo e della politica cinese.

Torniamo, brevemente, a quegli anni, alle pagine del Far East Economic Review, prestigiosa rivista economica con sede a Hong Kong che fu uno dei punti di osservazione principali sulla Cina del tempo. Gli esperti che scrivevano sulla rivista avevano notato che nelle statistiche ufficiali della Repubblica Popolare Cinese compariva, subito dopo il lancio della campagna del Grande balzo in avanti, una consistente riduzione delle aree messe a coltura. Senza un buon incremento della produzione nelle restanti aree – e nulla autorizzava a credere che stesse avvenendo – i livelli di sussistenza raggiunti alla metà degli anni ’50 non sarebbero più stati disponibili. In assenza di scorte e di surplus tutto questo avrebbe significato una sola cosa: fame per la popolazione. E fame fu, come sappiamo e come comparve sulla stampa internazionale pochi mesi dopo.
Così la non percezione del problema da parte dei contemporanei o di coloro che scrissero successivamente acquisisce una coloritura diversa: seppero, dunque, ma non credettero fosse vero. O forse non credettero che lo fosse fino a tal punto. O, ancora, in un mondo che andava verso una rapida spaccatura in due blocchi, vi era una diffusa consapevolezza che nessuno dei due stesse dicendo il vero e la menzogna fosse arte di governo sia nel blocco socialista che in quello occidentale.
Sensazioni di un tempo oggi abbondantemente dimostrate dalla letteratura storica sulla guerra fredda: quando leggiamo, come negli studi di Tony Shaw, con quale familiarità il Foreign Office britannico fosse consueto dare disposizioni alla stampa inglese sugli argomenti da trattare e da rifiutare a commento della guerra di Corea, acquisiamo la certezza che non furono solo sospetti.
Davvero, in quegli anni, l’uso delle informazioni fu parte di una guerra politica di eccezionale durezza: nessuno dei due blocchi, sebbene con intensità e modalità diverse, ebbe rispetto della libertà di informazione.
Oggi, a cinquanta anni da quei dolorosi eventi, sappiamo cosa avvenne: negarlo è diventato impossibile. Non si trattò solamente di una generica presa di posizione di testimoni che in qualche modo si erano innamorati della Cina e ne difendevano – contro ogni evidenza – le scelte. Certo, ci fu anche questo, ma non solo. Né si trattò solamente di una grande maestria da parte cinese nel manipolare i media: le autorità cinesi centrali cinesi vennero ingannate a loro volta dalle loro stesse autorità provinciali ma furono poi molto abili nel mentire e nel fare credere ciò che desideravano venisse creduto. Tuttavia nessuna menzogna – per sfacciata che fosse – sarebbe stata sufficiente se non si fosse accompagnata a un’immagine del potere e del governo dello stato che aveva una tradizione millenaria e di cui il PCC di Mao fu interprete straordinario. Da un’analisi dei documenti ufficiali di quel tempo – quelli sì largamente disponibili e stampati anche in Italia spesso all’interno di importanti raccolte degli scritti di Mao – emerge quella doppia natura del potere cinese che confuse i contemporanei pur esperti e disincantati, rendendo le notizie di segno opposto non incredibili, ma non accettabili: come quella della pagina di Repubblica sulla peste in Europa per i miei studenti.
Cosa emerge dunque dai documenti ufficiali di quel tempo? Un atteggiamento quasi audace per un Occidentale, ma rivoluzionario per chi – come Pajetta, Cammelli e Collotti Pischel – non sapeva nulla dell’immagine del governo in epoca imperiale, della figura del principe come autorità morale, del gioco di riferimenti morali che in Cina si condensano nel “mandato a governare” ovvero il mandato del Cielo. Abituati al trionfalismo sovietico e alla rigidità di un potere che non ammetteva critiche le nostre fonti vengono sorprese, ammaliate, da quella che appare loro come liberalità e rigore morale.
Come il non nascondere la miseria, non nascondere le difficoltà: Pajetta e Cammelli, ma anche Pischel, sono da questo punto di vista sorpresi dalla capacità di autocritica dei cinesi. Tuttavia, in uno straordinario ribaltamento d’impostazione, i documenti ci spiegano che il partito e il suo Grande timoniere – Mao Zedong – avevano colto con chiarezza i problemi che andavano delineandosi e che proprio per evitarli era stata lanciato il Grande balzo in avanti. La “grandezza morale” che impressionò Pajetta e Cammelli – così come impressionò tutti coloro che visitarono la Cina in quegli anni – si riempie quindi di tre contenuti significativi: a) i comunisti cinesi sono grandi perché riconoscono gli errori compiuti e sono pronti a discuterli con le masse; b) sono grandi perché hanno predisposto un piano che porta alla risoluzione del problemi delle masse; c) sono grandi perché hanno capito che non c’è piano che possa andare avanti senza collaborazione delle masse e una radicale riforma politica che passa per il convincimento – per dirla con le parole di Cammelli – non con la forza. Un siffatto modo di impostare il problema finisce così con il confermare che il Partito non è democratica espressione del popolo, ma piuttosto ne è appassionato e amoroso maestro. Non è il rappresentante del popolo, ma il professore, la guida da cui ci si attende che faccia il bene della classe anche se questa non lo sa, non se ne accorge, non è d’accordo. O anche se questo comporta, a volte, dure punizioni.
Né Cammelli né la Pischel ignorarono completamente che dietro Grande balzo in avanti si andavano delineando qualcosa di angoscioso e di grave. Se non ne ebbero una percezione più definita o se negli anni più tardi la negarono (evento questo assai più grave) fu perché erano stati convinti non che tutto andasse bene, ma che se fosse andato davvero male come “la stampa occidentale” denunciava, allora i cinesi ne avrebbero parlato, discusso. Con la stessa apertura intellettuale dimostrata in tanti documenti ufficiali. E così le requisizioni forzate, le fucilazioni di massa di qualche anno prima, le morti per fame e tutto quello che successe in quegli anni e parve loro come qualcosa che non doveva essere enfatizzato.
Più che una scelta si trattava della conseguenza non voluta del non avere seguito le indicazioni del partito. In uno slittamento che è tipico del pensiero politico cinese il colpevole non fu il partito né il suo presidente Mao che avevano predisposto un piano irreale, ma il popolo che non aveva saputo metterlo in pratica, i compagni che non erano stati in grado di spiegarne il valore alle masse, i controrivoluzionari che lo avevano sabotato.
Non venne taciuto tutto, forse – qua e là – comparvero anche accenni alle carestie in corso, alla fame, a qualche inevitabile disgrazia. Ma l’impostazione complessiva in cui le rare informazioni vennero inserite trasformò le colpe di Mao e del partito nella conseguenza necessaria di una mancata educazione di massa. Chi aveva spiegato non aveva saputo farlo in modo più convincente, chi aveva guidato non aveva saputo farlo meglio, chi doveva convincersi non aveva voluto essere convinto. I disastri si erano compiuti, i morti c’erano stati: ma non erano colpa di nessuno. Anzi: erano colpa di tutti. Questa fu la straordinaria forza del potere di Mao e del PCC, non in quanto comunisti, ma in quanto forma di governo in Cina.
Questo meccanismo del potere cinese – un tempo imperiale ed oggi del partito – di occupare il centro morale del potere assumendo le vesti e il ruolo non di “rappresentante del popolo” ma di “guida”, “guru”, “grande timoniere” del popolo opera una spaccatura nella società cinese degli anni cinquanta che diventerà essa stessa arte e forma del governo. Se il partito è centro morale della nazione, essere fuori dal partito è essere nemici della morale; se il partito è con le masse, esserne contro significa essere contro la masse; se il partito è il futuro essere contro significa essere conservatori. Mancano le ultime antinomie, ma ormai sono chiare: se il partito dà la vita al popolo, se il partito è vita, è chi è fuori dal partito che va incontro alla morte. Se è il partito che rappresenta il bene della nazione, allora chi vi si oppone è il male.

Introdotti a questa impostazione dialettica, lentamente convinti della sua opportunità, i testimoni di cui abbiamo parlato provano quasi vergogna a parlare di ciò che non va, o delle morti che sospettano si siano verificate, o dei problemi enormi di cui non possono non cogliere le tracce. La grandezza morale del progetto li colpisce: due di loro, insegnanti, rimangono ammaliati proprio da questa opera di educazione che in qualche breve momento – lo si è veduto – desta il sospetto di un lavaggio del cervello, ma che – in definitiva – non può essere definito tale. In quanto educatori sanno bene che ogni educazione è stimolazione del cervello, non è questo che li preoccupa, ma che tutto avvenga per un fine morale nobile, positivo.
Ritroviamo il problema delle fonti, ovvero del difficile relazionarsi con la Cina, nella seconda metà degli anni sessanta quando ebbe inizio (o ebbe fine, come suggerisce il grande Simon Leys16) la Rivoluzione culturale. Si affermò in quei giorni l’immagine di una leadership cinese virtuosa che con coraggio ripensava la propria rivoluzione, la metteva in discussione, la rimetteva in moto onde
sfuggire ai rischi di una burocratizzazione crescente e di una svolta di tipo sovietico.
Nell’Europa traumatizzata dall’invasione d’Ungheria e dalle rivelazioni del XX congresso del PCUS sappiamo con quale senso di liberazione (ma anche scetticismo) venne accolto questo progetto di autocritica che rimetteva, è vero, tutto in discussione, ma contemporaneamente allontanava lo spettro di un grigiore sovietico al tempo stesso burocratico, autoritario e corrotto. Naturalmente tutto avrebbe dovuto svolgersi in modo pacifico, in modo scenico e popolare, con abbondanza di colori, bandiere, di processi popolari e di assemblee di lavoratori. La rivoluzione a cui Mao aveva chiamato gli studenti era culturale dunque intellettuale, dialettica, sottile ed energica, ma proprio per questo pacifica. Così, una volta collocato il centro morale in Pechino e in Tienanmen, una volta identificatolo come fonte di energia intellettuale pacifica e rivoluzionaria, tutto ciò che vi si allontanò divenne o azione dei nemici del leader o di coloro che non ne avevano
compreso il messaggio. Il verificarsi di episodi di violenza non era da escludersi ma veniva inserito in un contesto sostanzialmente pacifico, culturale, dove non si poteva impedire che quelle stesse masse la cui educazione rappresentava il fino più nobile per eccellenza, qui e là non avessero compreso e si dessero ad atti vandalici, distruttivi.
Inutilmente una sorte di eroe della storiografia contemporanea sulla Cina – Simon Leys – in cui onore il mio testo di Einaudi porta il titolo Ombre Cinesi – ricordò che le cose non stavano affatto così. Inutilmente osò ricordare dalle colonne dei giornali per cui scriveva – tra cui Le Figaro – che questa rivoluzione non degenerava in violenza ma era nata violenta; era volontaria disgregazione della società cinese caratterizzata da una violenza cieca e brutale sulle persone e le cose.
Oggi sappiamo – sulla base di stime non esagerate – che la Rivoluzione culturale costò quasi 1.500.000 morti: una cifra forse modesta rapportata alla popolazione della Cina di quegli anni, ma comunque abbastanza rilevante per quel milione e mezzo di persone che perirono in quelle giornate. Naturalmente si sarà notato che il numero complessivo delle vittime della Rivoluzione culturale non fu nel complesso molto distante da quello della contemporanea guerra in Vietnam.
Eppure le stesse persone che mobilitarono sé stesse e l’opinione pubblica mondiale per giungere al termine di una guerra di così tragiche proporzioni mostrarono nei confronti della Rivoluzione culturale un atteggiamento quasi condiscendente.
Non è che le morti cinesi contassero di meno di quelle vietnamite, si disse. Ma mentre le une erano la prova della ferocia dell’aggressione americana e dell’eroismo nazionale di un popolo in lotta per la libertà, le altre erano legate a fenomeni di degrado della lotta politica. Le morti vietnamite – ecco ritornare la centralità morale del potere di cui il PCC ha imparato ad essere interprete perfetto e che in quegli anni coinvolse un altro eroe/dittatore come Ho Chi Min– erano dunque morti di grande valore ideale perché celebravano la lotta rivoluzionaria di un popolo. Quelle cinesi, al contrario, erano legate allo sfaldarsi, al deteriorarsi, al perdersi del messaggio morale del leader. La grandezza morale delle morti vietnamite consisteva nel loro immolarsi per la causa della nazione. La nullità di quelle cinesi dipendeva ancora una volta dal fatto che si era fatta resistenza: non la rivoluzione culturale provocava morti, ma la sua interpretazione provinciale, inevitabilmente deteriorata, non erano imputabile a Mao.
Nemmeno oggi, a molti anni di distanza, il problema è completamente superato.
L’ormai riconosciuta moralità rivoluzionaria del partito, il partito come centro del moral order della società cinese, ha comportato che i suoi sbagli possano essere anche dimenticati, o rapidamente accennati. Ma, soprattutto, che essi subiscano una sorta di de-qualificazione: così i morti nelle tre violentissime campagne lanciate tra il 1950 e il 1952 possono essere precisati o meno, ma non inficiano, nella sostanza, la bontà dell’intervento del partito di ripulire il paese da corruzione e altro. Non ci si domanda più se le stragi di massa nelle città cinesi all’indomani della liberazione siano legate alla liberazione stessa, né se quelle nelle campagne siano legate alla collettivizzazione in sé. Perché, ancora una volta, quei cittadini ribellandosi e quei contadini opponendosi avevano in qualche modo messo in discussione un nuovo principio centrale morale – il partito – che nessuno sembra nemmeno lontanamente volere mettere in discussione. E così la ricca produzione bibliografica sulla Cina contemporanea – anche italiana – conferma anche oggi il protrarsi di silenzi che lasciano molto perplessi dal punto di vista storiografico. Troppe volte il computo dei morti provocati dalla tragedia del Grande balzo in avanti, così come quello delle vittime della Rivoluzione culturale, continua a vivere nelle note a piè di pagina, o ad essere liquidato in poche parole sostanzialmente annegate in libri di centinaia di pagine. Troppe volte si rimane culturalmente succubi della legittima pretesa cinese di presentare il costo sociale di certe scelte come non determinante o marginale. Ma nulla ci dice che sia stato effettivamente così: e comunque, se davvero così fu, è preferibile arrivarci attraverso un ragionamento completo, non attraverso il silenzio. Talora si parla della guerra di liberazione nel Dong-Bei (Manciuria) riuscendo a non nominare la tragedia provocata dalla collettivizzazione forzata dell’agricoltura, i processi e le esecuzioni di massa dei “contadini ricchi” e dei “proprietari terrieri”. È certamente arduo quantificare il numero delle vittime di quei processi: ma il non sapere se i morti furono 80,000 o 800.000 morti è giustificazione sufficiente per non parlarne affatto?
E ancora. Si parla della guerra tra PCC e Guomindang senza spiegare come avvennero certe conquiste, come tante città vennero conquistate. Da più parti «si dice» che ci furono città in cui l’Esercito di Liberazione impedì alla popolazione di uscire in modo che l’assedio risultasse più rapido. Nell’assedio di Chungchun, roccaforte del Guomindang in Manciuria assediata dall’Esercito di liberazione per quasi dodici mesi, sarebbero morte per fame tra le 100.000 e le 300.000 persone.
Naturalmente c’è chi difende la condotta dell’Esercito di liberazione spiegando che i combattimenti di Chungchun furono durissimi e che non ci fu alcuna strategia in tal senso: quanto avvenne fu semplicemente conseguenza dell’assedio della capitale della Manciuria la cui caduta era determinante per le sorti della guerra civile. Da altre parti, non necessariamente più autorevoli, si parla invece di premeditato calcolo militare, concretizzatosi nella proibizione a donne, vecchi e bambini di abbandonare la città prima dell’inizio dell’assedio e dello scontro finale.
Inutilmente di queste e di mille altre vicende si cercherà una traccia in molti testi. Se sono ipotesi infami e false lo si spieghi; se sono solo in parte reali se ne delimitino i contorni. Ma tacerle come se nulla fosse successo… è accettabile? Intendiamoci: non interessa trasformare queste considerazioni in una sorta di esame in cui certi libri vengono promossi ed altri bocciati: la scelta presa in Ombre cinesi di non personalizzare lo scontro, dunque di evitare uno screening della letteratura storica italiana sull’argomento, sebbene sia stata criticata deve essere rinnovata. Interessa esclusivamente indagare senza alcuna compiacenza un problema, cogliendone quegli aspetti strutturali che stanno inquinando in modo grave la nostra conoscenza della Cina contemporanea. In definitiva, come usa dire, scoprire quanto accaduto a Chungchun non è doveroso quanto scoprire cosa avvenne per davvero a Nanchino? Nemmeno nella morte si è uguali?
In questi due ultimi decenni – ancora una volta – hanno fatto capolino nuovi silenzi. Ma forse proprio per la natura antica di questi silenzi o per un’accresciuta consapevolezza da parte della comunità degli studiosi, l’allarme è stato lanciato con più forza ed il problema è stato affrontato, per così dire, in modo diretto. Di colpo ci si è accorti che da tanti reportage è scomparso il Partito Comunista Cinese: si parla sempre, continuamente di Cina. Ma sul PCC e di come esso conduce la nazione è sceso un silenzio quasi tombale. Per dirla con le parole di Da Ponte – Mozart il Partito Comunista Cinese si è trasformato in una sorta «di araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.» L’allarme, preparato da studi importanti e lanciato quasi contemporaneamente da più parti, ha avuto come esponente forse più significativo uno studioso americano di NYU, Doug Guthrie19 ed è infine rimbalzato fino a Hong Kong. Qui, nelle stesse colonne del già ricordato Far East Economic Review, in un articolo di rara aggressività pubblicato nell’aprile del 2007, Carsten Holz si domanda se per caso questa scomparsa non sia legata a una politica di acquisti fatta dallo stesso governo di Pechino, ovvero se non corrisponda alla strategia stessa del PCC: “Come ha fatto – domanda provocatoriamente Carsten Holz – il PCC a comprarsi tutti gli esperti di Cina?”. L’articolo non pare avere smosso particolarmente le acque. Tuttavia un editoriale di Richard Bernstein sull’International Herald Tribune del novembre di quest’anno ritorna sulle medesime considerazioni e delinea un quadro di estremo interesse. Ormai non è più nemmeno un’ipotesi legata a studiosi importanti ma una realtà che ha una sua concretezza: il PCC sembra essere scomparso dalla stampa e da ogni altra forma di comunicazione legata ai media. Nel momento in cui la Cina ha conquistato grande visibilità il PCC sembra essere scomparso. Di lui si scrive poco e si sa ancor meno. Forse, si accenna, non esiste nemmeno più. Cosa sta avvenendo dunque nella stampa e nei media?

La prima immagine è quella della descrizione di una società civile cinese matura, pronta per la libertà politica, ormai così avvezza ed abile nella gestione dei problemi economici da potersi definire in un solo modo “culturalmente moderna e alla ricerca del successo economico”. La Cina viene descritta come una società indirizzata verso una modernità che è la società stessa a inseguire in modo quasi autonomo. La genialità, le risorse individuali di tanti quadri maturati all’estero, la collaborazione di quadri dell’amministrazione periferica e statale, spianano le porte a collaborazioni – ad ogni livello – segnate dal leit motiv che il Partito non conta più così tanto e la società cinese può andare avanti senza crearsene un problema sia perché è irrisolvibile sia perché, in ogni caso, la società starebbe viaggiando più velocemente di quanto qualunque dirigente di partito sia in grado di comprendere.
La società civile cinese che procederebbe nonostante il Partito starebbe viaggiando in direzione di una veloce modernizzazione che non potrà che coincidere con una forte occidentalizzazione. Così, dettaglio divertente di un gioco delle parti gestito con sapienza, sarebbe l’occidentale stesso a convincersi di dovere essere lui a proteggere ciò che resta della tradizione culturale cinese: se fosse per i cinesi tutto –si sente dire- verrebbe distrutto in un attimo.
Naturalmente se lo sviluppo cinese ha raggiunto una tale formidabile accelerazione è dovuto alle notevoli potenzialità della Cina e della sua economia. Queste sarebbero oggi compresse fino alla limitazione da una gerarchia di anziani dirigenti del partito che stenterebbero a rendersi conto di quanto la società civile sia più avanti e di quanto ormai sia ottuso, quasi tardo medievale, questo attardarsi nella stanza del potere dopo che il paese ha imparato a muoversi e ad esistere nell’epoca contemporanea. Ultimo corollario di queste posizioni è la descrizione caricaturale di un partito vecchio ed obsoleto, incapace di tutto tranne che di restare radicato al potere; tenace difensore di una nuova classe politica – i nuovi mandarini – che in nome di antichi privilegi di partito nati nell’epoca maoista si frappone all’evoluzione politica di tanto modernismo e blocca, con la violenza delle più spietate repressioni poliziesche e informatiche ogni accenno di libertà (esempi eloquenti ne sarebbero la collaborazione con la Birmania, la repressione in Tibet, l’arricchimento esagerato, l’inquinamento indiscriminato, le auto da 200.000 dollari, ecc.).
Così – in questo gioco delle parti apparentemente spontaneo – la massima opposizione politica (boicottare le Olimpiadi, il rispetto dei diritti civili, ecc.) coincide con il massimo del silenzio (la Cina è molto più avanti di quanto non sembri e il Partito non conta ormai più nulla) o, ma non in alternativa, con il massimo dei disprezzi (il dirigente corrotto e senza alcuna strategia politica nuova classe dirigente spietata e attaccata al potere). Naturalmente le cose non stanno così, confermano gli studi di Doug Guthrie e Tony Saich. Non stanno così, ripetono Andrew Nathan e il giornalista Bernstein. Non stanno così scrive Carsten Holz. Non stanno così, diciamo noi. Solo una colossale ignoranza di Cina può consentire valutazioni di questo tipo. Il Partito Comunista Cinese ha ormai da oltre sessanta anni una leadership totale sulla società cinese. Il potere politico conquistato con la proclamazione della repubblica (1 ottobre 1949) è divenuto stretto controllo della società attraverso le innumerevoli campagne che hanno caratterizzato l’inizio del socialismo cinese. “Sostenere la Corea e combattere l’imperialismo americano”, la campagna “I tre contro” e quella dei “Cinque contro” vennero utilizzate dal PCC per acquisire un controllo sociale, economico e politico di una società che da oltre cento anni non sapeva più cosa fosse nemmeno una semplice amministrazione locale. La costituzione delle unità di lavoro 24 permise il controllo di ogni singolo cinese dalla nascita, alla morte, dal posto di lavoro alla festa in casa. Dalla fabbrica alla vita privata il partito seppe forgiare gli strumenti di un controllo così radicato e massificato da rendere sostanzialmente impossibile ogni dissidenza e dal gettare le basi di quella collettivizzazione della vita privata che fu il grande evento della crisi del Grande balzo in avanti e dell’epoca delle comuni popolari. Terminata la Rivoluzione culturale che ne contestò violentemente il ruolo e la funzione, il Partito Comunista cinese ha riconquistato a poco a poco il controllo della società cinese.

Negli anni ’80 si è avuta la forte decentralizzazione voluta da Deng Xiaoping: tuttavia non fu decentramento amministrativo ma una vera e propria delega protempore alle autorità locali in attesa che il centro politico riconquistasse nuova capacità di governo. In questa fase che vide il decollo dell’economia locale, scelta vincente nella rinascita dell’economia cinese fu la collaborazione tra quadri di partito e amministratori locali. Quel rinnovamento economico che in Pechino e a livello centrale era paralizzato dalle estenuanti resistenze di una sinistra massimalista venne affidato ai quadri locali che non potevano permettersi battaglie ideologiche troppe astratte: la miseria della popolazione, ben presente ai loro occhi e con una sua fisica urgenza, richiedeva di agire, quanto più rapidamente è possibile.
Nemmeno la rivolta studentesca del 1989 ha posto termine a questo processo. Per tutti gli anni ’90 il Partito Comunista Cinese è stato il protagonista della difficile battaglia di riportare nell’area della sopravvivenza e oltre gli angosciosi confini della disperazione e della miseria quasi un quarto della popolazione mondiale. Sono leggi promosse dal partito quelle sulle imprese a capitale misto, quella sul lavoro, quella sul rimborso per danni provocati dallo stato e quella delle imprese che hanno di fatto sradicato il mercato del lavoro tradizionale stabilendo nuovi diritti – proprio così, nuovi diritti – e nuove regole all’interno del mercato del lavoro. Un partito rivitalizzato e sempre più orgogliosamente sicuro dei propri mezzi ha celebrato nel 1997 la fine dell’occupazione coloniale a Hong Kong e quindi la riorganizzazione del Partito che è passato nel giro di dieci anni – tra il 1997 e il 2005 – da 60.417.000 iscritti a 70.800.000.

In questo contesto di un più ampio, orgoglioso e consolidato controllo sulla società civile il PCC ha potuto concedersi un cambio generazionale senza precedenti (XVI congresso, 2002), il superamento quasi indolore di una crisi come quella provocata dalla cosiddetta S.A.R.S., ed infine l’allargamento, in questi ultimi dieci anni, della propria area di controllo anche alla stampa estera e al luogo per eccellenza della libertà comunicativa, il web. Ma non è finita. Gli operatori finanziari di Hong Kong denunciano la totale inaffidabilità di ogni statistica proveniente dalla Cina, denunciano il dovere piazzare sulle mercato azioni di società di cui non hanno un solo dato e il cui valore è una sorta di a priori. Denunciano la totale assenza di un qualunque dato affidabile sulla reale forza dell’attuale economia cinese. È davvero impossibile non mettere in collegamento la crescente quantità di azioni di società cinesi alla ricerca di una collocazione sul mercato con la totale mancanza di notizie sulla solidità delle società quotate. È impossibile non mettere tutto questo in collegamento con la ricerca di interventi finanziari da parte cinese su aziende europee o americane. Sicché è ormai chiaro che fino a quando i dati sulle imprese cinesi non saranno pubblici (oggi sono segreto di stato) non sarà nemmeno chiaro se comprare azioni di una società cinese (o vendere a una società cinese una parte di impresa) non sia – in realtà – un comprare debiti. È ormai discusso comunemente a Shanghai e Hong Kong se i cinesi non abbiano appreso dagli americani e stiano oggi giorno vendendo azioni di società che perdono o che non guadagnano come dovrebbero (così come gli americani vendono buoni del tesoro di uno stato sostanzialmente insolvibile). Ora è bene fare chiarezza: la storia intesa come somma di complotti o di casualità legate ai nasi delle regine o ad altri occasionali eventi è raramente credibile. Ma è problematico credere che un processo di questa complessità ed articolazione  – come il sostanziale oscuramento dei dati di bilancio delle aziende cinesi – non trovi elementi di sostegno e di coinvolgimento in quello stesso PCC – le cui notevoli capacità sono testimoniate dalle performance di questi ultimi decenni, dal controllo che ha acquisito sulla società in modo inimmaginabile (insieme a molte liberalizzazioni), dalla rilevanza della rivoluzione economica avviata. Sicché il problema sarà forse di comprendere i modi attraverso cui si è articolato questo controllo, definire meglio le forme e i limiti di questa direzione politica, non certamente negarla. O fare finta non ci sia. Non si sta parlando di una raffinata operazione intellettuale, ma di puro buon senso: come si fa a non pensare che sia casuale la mancanza di dati affidabili sull’impresa cinese che oggi vuole comprare un’impresa italiana? Ovvero: quale imprenditore europeo comprerebbe le azioni di una società, o accetterebbe di vender una parte della propria società, senza prima avere visto nero su bianco i numeri della stabilità finanziaria del nuovo partner? Può darsi che gli operatori di Hong Kong e delle borse asiatiche riescano a nascondersi quello che appare evidente, o abbiano interesse a farlo. Ma riesce difficile – osservando quanto fin qui ricordato – dimenticare una delle massime più popolari di Deng Xiaoping: “nascondi la tua abilità e vivi nell’ombra”. Il silenzio che circonda il PCC, al punto da alimentare la fantasiosa illusione che la società cinese stia procedendo senza di lui, anzi nonostante lui, appare come totale contrapposizione rispetto a quanto avvenne negli anni ’50 quando si parlava solo del partito e non di quanto stava accadendo intorno, in quella che potremmo definire la realtà. Opposizione sembrerebbe e opposizione pare davvero essere. Ma il fatto è che il ragionamento che sottende questa maggiore o minore esposizione del partito è sempre quella posizione morale del partito all’interno della società cinese che ruota intorno a ciò che Lucian Pye ha definito moral order. Questo bisogno di legittimità morale del governante, che ha le sue radici storiche nel mandato celeste a governare riconosciuto ai virtuosi, si concentra anche nell’immagine storica del partito in quanto interprete della coscienza e della guida della società cinese. Questa dimensione morale, con buona pace della stampa occidentale, non è affatto in discussione in Cina. La crisi del 1989 si è richiusa quasi immediatamente non appena (1990-1991) le attonite folle cinesi hanno veduto come l’Occidente aveva usato la questione della democrazia e dei diritti umani per schiantare un nemico storico quale l’URSS senza nulla concederle sul piano del sostegno economico e della legittimazione internazionale. Importanti ricerche di Geremie Barmé33 hanno ormai spiegato come proprio nei mesi in cui l’Occidente credeva che si stesse consumando una frattura epocale col partito, i giovani cinesi tornarono a Mao e alla sua centralità, ampiamente preferita ai vantaggi di una democrazia occidentale molto solidale a parole ma che aveva umiliato l’URSS, distrutto il suo potere militare, lasciato nella stessa miseria degli anni sovietici la popolazione russa.
L’Occidente credette che nel post-Tienanmen la società cinese fosse traumatizzata dalla violenta repressione. L’impossibilità di giungere a uno sbocco democratico avrebbe così al tempo stesso delegittimato il PCC agli occhi delle folle dei cinesi e innescato la corsa all’arricchimento. Fu certamente così: ma questa sensazione mutò rapidamente – in poco meno di due anni – quando fu chiaro a tutti cosa la Cina aveva rischiato se avesse ceduto alle lusinghe liberiste dell’Occidente. Le ricerche di Barmé ci dicono e una importante letteratura ormai conferma che la distruzione dell’URSS, la tolleranza occidentale per le cannonate di Eltsin sul parlamento con il silenzio sceso sui circa tremila morti di Mosca di quei giorni (chi ne parla più? sembra quasi che sia invenzione!) confermarono agli occhi della Cina che l’Occidente non era cambiato in nulla e che la salvezza
della Cina stava nella forza e nella statura del partito che non aveva seguito Gorbaciov nella corsa al suicidio. La società cinese venne attraversata da un’impetuosa riscoperta di Mao e da uno slancio nazionalistico ed antioccidentale senza precedenti il cui epilogo fu il successo editoriale del libro Zhonguo kei shuo bu (La Cina può dire no), manifesto iper-nazionalista giovanile, comparso alla fine del 1994 e venduto nel giro di poche ore a milioni di copie Il PCC riconquistò in Cina la perduta centralità morale negli anni in cui diventò l’ultimo bastione nella difesa dell’unità nazionale. Questa nuova legittimazione non poteva essere riconosciuta come valida in Occidente. Qui la grande crisi aperta dalla repressione del 1989 e dalla disillusione intellettuale nei confronti del PCC non si è ancora rimarginata. Vi è, anzi, forse provocato dalla feroce disillusione patita, un rancore, una reattività anti-partito comunista che nega anche il più piccolo credito intellettuale e lo trasforma – talvolta – nella causa stessa dei mali della Cina. Anzi: nel male. D’altronde lo stesso Occidente è ormai profondamente diverso: da tempo ha abbracciato un’aggressiva politica di ingerenza negli affari interni dei paesi: in nome dei diritti umani e nel ricordo di Sebrenica si è passati dalla pressione culturale a quella politica, quindi ai boicottaggi economici e, infine, agli interventi militari. La repressione di quel lontano giugno 1989 ha cancellato decenni di complicità morali e politiche sia a sinistra che a destra: chi era sicuro ora ha dubbi e tace, chi era incerto ora sa di cosa può essere capace e di cosa è stato capace il PCC. Nessuno scandalo, non in Cina. Ma i cinesi – e non è questa la sede per ricordare i numerosi interventi di un dibattito molto noto in Cina – sanno che la figura del partito come centro morale della società per molti decenni ancora non sarà più riproponibile in occidente. Forse non lo sarà più. Nasce in questa consapevolezza l’invito di Deng a scomparire, nascondersi, lavorare in silenzio e nel concreto. Giusta o sbagliata che sia la repressione di Tienanmen è stata pagata con un prezzo altissimo, il mandato morale a governare è andato perduto non di fronte al paese, ma di fronte al mondo intero. Non resta ora che ricostruirlo lentamente e pazientemente. Non sull’onda del successo economico (immorale in quasi tutte le società contadine e in particolare in quella cinese) ma in una graduale ricomposizione dei contrasti sociali, delle fratture, delle dissidenze e delle incomprensioni create. È quanto è stato stabilito dal XVI congresso e confermato dal XVII con la messa a fuoco di una strategia politica mirante a nuova armonia sociale, interna alla Cina e internazionale.

L’Occidente ha impiegato quaranta anni a comprendere la natura del potere del partito comunista cinese nella Cina degli anni ’40-’70. Allora si affermò una difesa del partito nonostante tutto quello che avveniva nel sociale. Da quasi quindici anni assistiamo al fenomeno opposto: si parla solo di Cina e in molti reportage sembra quasi il Partito non esista, non conti più. L’impressione, non particolarmente rassicurante, è che l’Occidente – ancora una volta – sia succube di un partito che ha superiori capacità di analisi ed una camaleontica abilità a scomparire. L’impressione è che la comprensione più completa della natura del potere cinese richieda una definizione più articolata e matura della sua natura morale e del millenario ‘mandato celeste’.
E allora è forse giunto il momento di ringraziare e rispedire a casa quelle legioni di esperti di economia che – come i comunisti degli anni ’60 – hanno veduto solo quello che è stato loro mostrato. Non sono stati corrotti, non sono stati comprati, non sono nemmeno in malafede: non tutti. Ma il potere cinese e i rapporti con la Cina richiedono altre abilità, altre competenze. Le Business School hanno già fatto tutto il danno che potevano fare: aprire una nuova pagina nella conoscenza della Cina significa riportare al centro della riflessione il dibattito politico, storico e filosofico arricchito dalla consapevolezza degli errori fatti dai comunisti negli anni ’60 e dagli economisti oggi.
Non è una strada che ci spaventa: è l’antica, vecchia strada di casa. Ci aspettano due guide da cui abbiamo tuttora molto da imparare.
Bentornati dunque Messer Marco Polo e Padre Matteo Ricci.

 

 

Catania, 18 dicembre 2007


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