Politica e magistratura: Alberto Di Pisa e Antonio Ingroia a confronto

La Giustizia italiana. I magistrati. Il rapporto con la politica. L’indipendenza della magistratura. E, ancora, la lentezza dei processi. La riforma di un sistema giudiziario che tarda ancora a venire. Temi di scottante attualità, anche alla luce della polemica, in questi giorni in corso, tra i magistrati e Berlusconi. Anzi, tra i magistrati e una formazione politica – il centrodestra – che rappresenta un terzo dell’elettorato del nostro Paese.

Questioni ‘calde’, quelle affrontare ieri nella seconda lezione del corso organizzato dall’Accademia nazionale della politica. Di scena un organismo – la già citata Accademia nazionale della politica, della quale è inventore e protagonista il vulcanico Bartolo Sammartino (che divide questa originale avventura culturale con un folto gruppo di amici) – che da oltre quindici anni vivacizza il dibattito culturale e politico in tutta la Sicilia. Affrontando argomenti spesso scomodi. Come, ad esempio, il Sud nel Risorgimento italiano. (a sinistra, foto tratta da formiche.net)

Ieri, però, più che di storia, la ‘lezione’, chiamiamola così, è stata incentrata sul presente. O meglio, su un tema attuale dagli anni ’70, da quando Magistratura democratica teorizzò una “funzione sociale” della magistratura, quasi una supplenza rispetto a una politica che, anche allora, appariva incapace di autoriformarsi.

Insomma, nel nostro Paese, il dibattito sulla Giustizia non è nuovo. Anzi. Ieri, a Palermo, nei saloni di Villa Malfitano, Bartolo Sammartino ha chiamato due grandi protagonisti del mondo della Giustizia dela Sicilia: Antonio Ingoia, già Pubblico ministero press il Tribunale di Palermo, oggi leader di Rivoluzione Civile, e Alberto Di Pisa, Procuratore della Repubblica  di Marsala.

Due uomini delle istituzioni che – è inutile girarci attorno – sui temi della Giustizia hanno idee diverse. E lo si è visto ieri. Idee diverse che camminano sulle gambe di due magistrati che hanno segnato in positivo la storia civile ddel nostro Paese.

Ingroia appartiene al presente. E’ stato accanto a Paolo Borsellino. E, benché giovane, ha già alle spalle processi importanti. Quello a Marcello Dell’Utri, le indagini su Silvio Berlusconi e, soprattutto, l’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia. Inchiesta ‘pesante’ che cerca di ricostruire quello che avvenne in Italia tra il 1992 e il 1994, quando si consumarono le stragi di Capaci (dove perirono Giovani Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini di scorta), via D’Amelio (dove morirono Paolo Borsellino e gli uomini e le donne della sua scorta) e le bombe disseminate dai mafiosi tra Firenze, Roma e Milano. Anni di piombo che segnano con il sangue il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica.

Diversa la storia Alberto Di Pisa, che forse ha una ventina di anni in più di Ingroia. Di Pisa, oggi come già ricordato, Procuratore capo a Marsala, è stato un protagonista della Procura della Repubblica di Palermo negli anni ’80. Dal suo ufficio di sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo passavano, in quegli anni, inchieste delicatissime: la presenza di Michele Sindona in Sicilia nell’estete del 1979, le inchieste sulla mafia, sulla droga, su Vito Ciancimino, sulla sanità siciliana (anche in quegli anni, come oggi, ‘infestata’ dalla Massoneria), sulla Loggia Diaz di via Roma a Palermo (una loggia massonica dove si ritrovavano insieme mafiosi, politici e anche qualche magistrato), sui grandi appalti di Palermo.

E’ Di Pisa (nella foto a sinistra), alla fine degli anni ’80, a indagare sulla presenza di Vito Ciancimino nei grandi appalti di Palermo mentre la città è amministrata vive la sua “Primavera’, amministrata da Leoluca Orlando e dal Pci. Proprio mentre in tanti celebravano Palermo che si liberava finalmente dalla mafia – con Orlando Sindaco e un magistrato nella sua giunta comunale con un ruolo centrale – si scopre che Vito Ciancimino è ancora il ‘Re’ incontrastato degli appalti di Palermo insieme a uno dei suoi soci storici, il Conte Romolo Vaselli.

Se oggi il potere politico non è riuscito a travolgere la magistratura, allora, invece, ci riuscì: a Di Pisa venne cucita addosso una vicenda giudiziaria che aveva il solo scopo di delegittimarlo e, soprattutto, di togliergli dalle mani le scottanti inchieste che conduceva: l’inchiesta sulla sanità, l’inchiesta sulla loggia Diaz di via Roma a Palermo e, soprattutto, l’inchiesta su mafia e appalti (e quindi Ciancimino, anche allora, di fatto, superprotetto: fatto logico, visto che allora la mafia corleonese era all’apice della propria forza).

Sempre per la cronaca, Di Pisa uscirà indenne da una vicenda giudiziaria molto ‘italiana’. Ma le indagini che aveva tra le mani scompariranno nel nulla. Non si saprà più nulla della loggia Diaz e degli ‘incappucciati’ che ne facevano parte. I risultati delle mancate inchieste sulla sanità pubblica siciliana di fine anni ’80 li possiamo leggere nelle relazioni che la Corte dei Conti illustra ogni anno a partire dalla seconda metà degli anni ’90 (disastri finanziari crescenti). Mentre Vito Ciancimino lo incontriamo sulla trattativa tra Stato e mafia, di fatto al netto di tutto quello che ha combinato prima (con e nella Dc, con Salvo Lima e con il Pci i quegli anni). (a destra, Vito Ciancimino)

Questa l’introduzione doverosa. Anche per capire quale concentrato di ‘nitroglicerina’ è riuscito a mettere insieme, ieri, Bartolo Sammartino nella seconda lezione dell’Accademia della politica.

Ma andiamo al ‘duello’ di ieri. Cominciando col dire che non è stato un duello ‘rusticano’, ma un confronto pacato, giostrato a colpi d fioretto. Ha iniziato Di Pisa. Secondo il quale la Giustizia si celebra sempre secondo la legge. Il magistrato ha detto che la questione non è nuova. Un problema, ha aggiunto, che è in primo luogo morale. Perché un giudice, ha precisato Di Pisa, deve giudicare sempre secondo diritto.

“Oggi si deve molto alla magistrature – ha detto Di Pisa -. I magistrati hanno fatto molto per migliorare il nostro Paese. Pagando, in alcune occasioni, prezzi altissimi. Tuttavia non spetta ai magistrati la riforma del nostro Paese. Questo è un ruolo che spetta alla politica”.

“Certo – ha precisato –il Procuratore della Repubblica di Marsala – può anche succedere che un magistrato non condivida una legge approvata dal Parlamento. Ma non può rifiutarsi di applicarla. Se non è d’accordo e non se la sente di applicarla, bene, lasci la magistratura dimettendosi e, se lo ritiene opportuno, entri nell’agone politico”.

“La funzione giudiziaria – ha proseguito Di Pisa – non va personalizzata -. Uno Stato che si rispetti deve avere al proprio interno i meccanismi per riformare le proprie decisioni. Un giudice è chiamato a decidere se una cosa è lecita o se non lo è. E deve farlo rispetto alla legge. Senza nemici da combattere e debellare”.

A Di Pisa non piacciono i processi in Tv o nelle piazze. “Perché questo – ha spiegato – fa venire meno la presunzione di innocenza prevista dal nostro ordinamento”.

Altro tema: l’imparzialità del magistrato. Questione delicatissima che trascina con sé l’indipenenza dei tre poteri dello Stato: legislativo, esecutivo e giudiziario. Su questo punto Di Pisa è stato chiarissimo, partendo da un’ipotesi astratta (o quasi): “Un giudice che favorisce una parte politica non svolgerebbe più attività giurisdizionale”.

Da qui un principio che il Procuratore di Marsala ha sintetizzato così: “Un magistrato, più sta lontano dalla politica, più credibile risulta”.

Qui il tema diventa scivoloso.Perché ci sono stati magistrati che hanno agito anche perché forti del consenso popolare. Falcone e Borsellino erano molto amati alla gente, perché costituivano – spiace dirlo – l’unica alternativa allo strapotere della borghesia mafiosa che, nella Sicilia degli anni ’80 e degli anni ’90 (e forse non solo in Sicilia), permeava vari ‘pezzi’ dello Stato italiano.

E allora? Di Pisa non si è tirato indietro: “Nell’inerzia della politica – ha detto – la magistratura ha fatto cose egregie. Ma è capitato, anche, di non aver risposto all’esigenza di giustizia dei singoli”.

L’analisi. Ma anche i possibili rimedi. “Dobbiamo tornare al processo – ha detto Di Pisa – alla cultura della prova e della giurisdizione. Con la centralità del giudice e non del Pm, che è solo una parte”. Dunque terzietà, equilibrio, senso della misura.

Spumeggiante anche l’intervento di Antonio Ingroia. Che, di fatto, ha difeso con passione civile la sua azione di magistrato e le sue scelte politiche.

Anche per Ingroia il tema dell’imparzialità della magistratura è cruciale, oggi come ieri. Ha ricordato l’articolo 104 della Costituzione. Ovvero l’indipendenza della magistratura dall’esecutivo. E ha ricordato anche che questo principio è arrivato dopo che, per secoli, la magistratura era stata al servizio dei potenti di turno.

Quindi è entrato subito nell’attualità, affrontando, di petto, il conflitto tra politica e magistratura. “E’ stata la politica – ha detto Ingoia – o certi settori della politica a provare a condizionare la magistratura. La verità è che l’imparzialità ha messo in discussione l’impunità”.

Se consideriamo la storia della Sicilia che va dall’Inchiesta di Leopoldo Fianchetti e Sidney Sonnino (vent’anni dopo l’unificazione italiana) fino al 1992, un lungo periodo contrassegnato dallo strapotere della borghesia mafiosa, è difficile dare torto a Ingoia. Perché la mafia, piaccia o no, è stata – e in parte ancora è – un fenomeno di classi dirigenti.

“Da qui le continue richieste di impunità”, ha detto ancora Ingroia. Ma anche un’ammissione: “La magistratura ha occupato spazi della politica per combattere la pretesa di irresponsabilità”. Da qui un affermazione forte, da parte di Ingoia: “L’imparzialità della magistratura è un valore importantissimo – ha detto -. Ma l’imparzialità nei processi non va confusa con la neutralità rispetto ai valori”.

Insomma, per dirla con parole semplici, un magistrato può essere imparziale nel ruolo che svolge ma, rispetto ai valori, può avere le proprie idee. Da questa enunciazione all’impegno politico il passo è breve. Un magistrato, se lo ritiene opportuno, può anche fare politica. Principio assodato, perché i magistrati italiani, ormai da decenni, fanno politica. Li incontriamo sempre più spesso in Parlamento. E, qualche volta anche nei Governi. O al Governo di Regioni o di Comuni.

Certo, nel nostro Paese un’evoluzione su come comportarsi con i magistrati impegnati in politica e, in generale, nell’amministrazione della cosa pubblica c’è stata. Oggi un magistrato, terminato il proprio mandato politico, non può più tornare a fare il magistrato nella comunità che ha amministrato o rappresentato in Parlamento. A nostro modesto avviso è giusto che sia così. Anche se Ingroia ha ricordato il caso di Cesare Terranova, valente magistrato che, dopo essere stato eletto al Parlamento nazionale nelle file del Pci (era stato autorevole componente della commissione Antimafia), aveva deciso di tornare a fare il magistrato a Palermo e nessuno si stupiva di questo.

Ingroia ha raccontato un fatto vero. Terranova fu deputato del Pci per due legislature, dal 1972 al 1979. Nel 1976 partecipò attivamente alla stesura della relazione di minoranza del Pci a conclusione dei lavori della prima commissione Antimafia che aveva iniziato a lavorare nel 1962. Quell relazione fu scritta, in buona parte, da Pio La Torre, con il contributo di Cesare Terranova.

Nel 1979 Terranova aveva deciso di rientrare in magistratura, nella giudicante. Venne ammazzato dai mafiosi nel 1979. Tre anni dopo avrebbero ammazzato Pio La Torre. Forse sarebbe interessante rileggere la relazione di minoranza del Pci scritta da La Torre. con la partecipazione d Terranova. Si capirebbero tante cose.

Interessante, nella lezione di ieri, anche il dibattito che si è sviluppato dopo le relazioni dei relatori. Con i giovani che frequentano il corso pronti a porre le domande. Sostenuti a Bartolo Sammartino, sempre pronto a mettere un po’ di ‘pepe’ nella discussione.

Bella la digressione sull’interpretazione della norma. O meglio, sulla evoluzione. E’ giusta o sbagliata evoluzione della norma? Di Pisa ha espresso qualche dubbio. “Perché il rischio – ha detto – è quello di creare una norma nuova. Invadendo gli spazi del potere legislativo”. Di diverso avviso Ingoia, che ha difeso l’interpretazione evolutiva della norma. “L’importante – ha precisato – che si mantenga dentro la Costituzione”.

Tante le domande. Su argomenti spinosi. Anche sulle intercettazioni che coinvolgono il Quirinale. Sono le parole di uno spaventato ex Ministro Nicola Mancino (peraltro, anche ex vice presidente del Csm) che non sembra molto felice di essere stato tirato in ballo nell’inchiesta sulla trattativa Stato mafia. Una vicenda dove riaffiora la solita Italia, mai disposta ad afferrare il bandolo della matassa se c’è comunque qualcosa da nascondere o da difendere: da qui la volontà di distruggere le intercettazioni: ovviamente nel nome della legalità, della giustizia, dell’antimafia e bla bla bla.

Una domanda l’abbiamo posta anche noi. Domanda semplice. Alla luce, ad esempio, del ‘prestito’ di circa 4 miliardi di euro concesso al Monte de Paschi di Siena in un momento in cui imprese e famiglie italiane sono in grandissima difficoltà. O alla luce dell’impunità che è stata assicurata ad alcuni esponenti della Sinistra siciliana collusi con il malaffare e con la mafia. Non pensate, abbiamo chiesto, che l’impunità che è stata assicurata a certi personaggi ddella sinistra, alla fine, abbia finito con lo sfavorire la stessa sinistra siciliana che dai primi anni ’80 ad oggi non si è mai rinnovata?

Di Pisa ha risposto di aver sempre indagato al centro, a destra e a sinistra. Mentre Ingroia ha risposto che non spetta alla magistratura rinnovare la politica.

 

 


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