Piera Aiello, l’orgoglio di essere donna

Di Piera Aiello non esistono più immagini né registrazioni audio pubbliche: sono tutte segrete. Piera ha un nuovo nome, una nuova vita, una nuova famiglia. Vive in un luogo che chiama «località segreta» con naturalezza, come se si trattasse del nome di una città o di un paesino. Quelli che però pensano di trovarsi davanti ad una persona che ha vissuto due vite diverse si sbagliano di grosso. La madre che, incinta di otto mesi, subiva le violenze del marito Nicolò («perché gli buttavo la droga nel gabinetto», racconta) è la stessa che con orgoglio palese parla dei figli e descrive quella nuova tranquillità per cui ha lottato con i denti.
 
Piera Aiello è una donna straordinaria, di quelle in cui non ci si imbatte facilmente, ma che una volta incontrate rimangono impresse per sempre nella memoria. La sua vita sembrava destinata a somigliare a quella di tante siciliane, sposate giovani, con nessuna preoccupazione se non figli e casa. Il marito era il figlio di Don Vito Atria, boss di Partanna – comune della valle del Belice – ucciso pochi giorni dopo il matrimonio del figlio. Fu proprio lui a succedergli negli affari di mafia.
 
Piera però non segue lo schema, non appartiene a quel mondo, e lo dimostra presto. Come quando annuncia al marito che vuole fare il concorso per entrare in Polizia. Le discussioni non si contano e la scusa ufficiale da fornire è semplice: «non ci sono i soldi per pagare il viaggio a Roma». Non si può di certo confessare che il figlio del boss di Partanna considera inconcepibile una decisione del genere. Il padre di Piera con semplicità le paga il biglietto, non immaginando quali siano i veri motivi che vi sono dietro, e la donna parte. La famiglia Aiello è molto diversa dalla famiglia Atria. Il padre era amico del giudice Rocco Chinnici, ma non si accorse mai del vero peso della persona a cui portava le sardine – che venivano controllate dalla scorta – e che condivideva con lui il pane dopo una giornata di lavoro come manovale. Se ne rese conto solo quando una bomba mise fine alla vita del magistrato nel luglio del 1983. Nicolò, con cinismo commenta: «può sempre fare comodo un poliziotto in casa». Piera non batte ciglio e risponde: «Ma lo sai chi sarebbe la prima persona che arresterei? Saresti tu». I lividi, questa volta, non si possono contare.
 
Gli anni passano e il 24 giugno del ‘91 Nicolò viene ucciso sotto gli occhi della moglie. Poco più di un mese dopo, Piera diventa testimone di giustizia. Incontra dunque Paolo Borsellino, all’epoca procuratore capo a Marsala. Una persona speciale, un amico. «Divento testimone alla morte di mio marito; ho denunciato sia chi l’aveva ammazzato che altre persone». Lo fa grazie ai numerosi diari che ha scritto. «Ogni sera scrivevo qualcosa. Appena mio marito si addormentava mi mettevo a scribacchiare». Nomi, fatti, collegamenti… tutte informazioni che diventano basilari per le indagini di Borsellino.
 
Qualche tempo dopo arriva anche Rita, la sorella di Nicolò. La sera prima qualcuno aveva bussato alla porta di casa con l’ordine di ucciderla. Oramai era una persona scomoda, la parente di quella che tutti consideravano non come una testimone ma una pentita, e così venne portata via dai carabinieri a casa della cognata. La prima cosa che Piera fa è regalarle un diario, uno vero, non come i quaderni sui quali aveva scritto per anni. «Quando è arrivata Rita abbiamo iniziato la nostra odissea di testimoni, ma lei non ha mai testimoniato in aula. Io invece ho visto tante, troppe aule bunker». E ha subìto anche moltissime ingiurie. «Mi screditavano, descrivendomi come una paesana che cercava di avere soldi dallo Stato».
 
Soldi… quelli che non credeva di dover ricevere quando una mattina qualcuno, bussando alla sua porta, le porge una busta con il primo compenso: «il mio primo stipendio, lo chiamo così. Un milione e duecento mila lire, ancora me lo ricordo». Allarmata telefona allo zio Paolo (come, con Rita, chiamavano Borsellino): «Zio Paolo, qua c’è uno che vuole darmi dei soldi ma io non li voglio!». «Ma quanto vuoi vivere con quello che ti sei portata dalla Sicilia se non puoi nemmeno lavorare?» le chiede ridendo il magistrato. «Lo Zio Paolo si era dimenticato di quel dettaglio» spiega con un sorriso Piera.
La vita da testimoni per Piera e Rita è dura, in un periodo confuso e nebuloso della storia italiana: «Abbiamo subìto il passaggio dell’Alto commissariato al Servizio di protezione. Eravamo testimoni e pentiti (oggi chiamati collaboratori) senza alcuna distinzione, anzi! Per gli altri c’era la possibilità di uscire e venire acclamati quando tornavano a casa. Per noi non vengono messi in pratica i regolamenti».
 
La legge che finalmente fa una distinzione tra collaboratori e testimoni viene approvata solo nel 2001, dopo anni di vere e proprie sofferenze per Piera. «Sono stata lasciata sola – afferma con amarezza – non hanno idea di cosa significa lasciare famiglia, amici, tutto». Piera da sola è rimasta davvero: dopo l’omicidio di Paolo Borsellino, l’unica persona fidata che avevano trovato dopo la fuga a Roma, Rita sente di non avere nessuna speranza e sceglie ancora una volta da sé la sua strada. Si uccide. Non ha nemmeno 18 anni.
 
La speranza per Piera giunge da un luogo inaspettato, dalla stessa Sicilia che ha dovuto abbandonare in fretta. Alcuni studenti di Milazzo, guidati da Nadia Furnari e Santina Latella, nel 1994 fondano un’associazione che porta proprio il nome di Rita Atria. «Non sono stata io a cercare l’associazione, sono stati i ragazzi a trovare me. Ero in un momento difficile della mia vita in cui mi sentivo letteralmente usata e buttata. Ero stata lasciata da sola». Racconta delle lunghe telefonate fatte di notte con l’amica Nadia, nelle quali confessa tutto il dolore per una vita impossibile, fatta di beghe burocratiche, richieste di autorizzazioni, comparizioni davanti a giudici e commissioni. Sempre da sola.
 
La situazione che si viene a creare nel frattempo è tanto paradossale quanto complessa, a tutti i livelli. «Non avevo nemmeno il libretto sanitario, il codice fiscale… nulla». Altro problema che si viene a creare è la necessità di iscrivere Vita Maria – la figlia che Piera ha avuto da Nicolò e che l’ha seguita nelle sue peregrinazioni – alle scuole elementari. «Era un diritto sacrosanto di mia figlia quello di ricevere un’istruzione. Così mi sono fatta il segno della croce e una mattina sono andata alla scuola elementare del paese nel quale vivevo. Non sapevo nemmeno se il direttore fosse la persona più mafiosa che avessi mai visto, ma gli ho esposto il problema. Gli ho spiegato chi ero e ho chiesto di rispettare il diritto di Vita Maria ad avere un’istruzione. Ho trovato un padre di famiglia che le ha falsificato i documenti e l’ha iscritta. Lo Stato si è accorto che mia figlia doveva andare a scuola solo quando era in quinta elementare, quando finalmente ci sono arrivati i documenti con le nuove identità. Lo stesso direttore allora ha rifalsificato tutto per permetterle il passaggio alle scuole medie».
 
Cosa pensi Piera dello Stato è palese. È stata abbandonata da chi doveva proteggerla e ringraziarla del suo immenso sacrificio. «Se potessi tornare indietro rifarei tutto. Denuncerei, testimonierei, ma non mi affiderei allo Stato». Anche perché, dopo tutti i dolori che Piera ha dovuto affrontare, le persone da lei accusate sono libere. «Fare il testimone non è una questione politica, non c’entrano i governi, la destra, la sinistra… Il testimone è una persona che deve essere condotta per mano a nuova vita. Deve essere accompagnata». Ma nulla di tutto questo è successo né per lei né per i circa 70 testimoni che hanno deciso di affidarsi alla protezione della Repubblica. L’abbandono è durato fino al 1997 (ben sei anni dopo la sua prima deposizione) quando le sono stati consegnati i nuovi documenti.
 
L’unica componente dello Stato che le è stata sempre davvero vicina – oltre all’amicizia con il giudice Alessandra Camassa e dopo la troppo breve collaborazione con Borsellino – è la sua scorta. «Sono i miei angeli. D’altronde rischiano la vita come la rischio io. Io mi affido a loro, ma anche loro si affidano a me. Non sono scorte locali e mi pregano sempre di far notare loro se qualcosa secondo me non va, se vedo qualcosa di strano». Non sono semplici poliziotti che sorvegliano ogni suo passo, ma veri e propri amici che si uniscono a lei anche durante le spaghettate o si offrono di comprare i dolci la domenica mattina.
 
La sicurezza di Piera è davvero una questione complicata e anche in questo ambito le situazioni assurde e paradossali non mancano. «Una volta dovevo venire in un paesino in Sicilia per un incontro con le scuole e il Servizio centrale mi diede alloggio proprio nell’unico albergo della zona, non nel capoluogo più vicino. Prima di salire in camera, alle due di notte, arrivò una moto e scese una persona che con il casco in testa si fece il giro della hall e andò via. I miei angeli erano perplessi e preoccupati e chiesero al portiere di notte chi fosse quel motociclista. Gli rispose che lui non aveva visto nessuno. Quella notte nessuno di noi chiuse occhio».
 
La vita di Piera è ogni giorno a rischio, tanto che i figli nati dal suo secondo matrimonio non conoscono la storia della madre, della sorella maggiore, né tantomeno della zia. Vita Maria ha deciso di difendere in prima persona la memoria di Rita, chiedendo e ottenendo i diritti sul nome della zia. Ma non è affatto una questione economica, sia Piera che tutti i membri dell’Associazione lo hanno ribadito più volte e con forza: è soltanto la volontà di proteggere una storia, una vita delicata e forte allo stesso tempo, che troppo spesso qualcuno ha sfruttato senza alcuna remore e solo per interesse personale.
 
Potrebbe sembrare che Piera sia una donna piena di rabbia, rosa da chissà quale odio nei confronti del destino. Non è per niente così. È una donna capace di ridere delle vicende al limite dell’assurdo che è stata costretta a vivere. Una persona che non ha accettato il rigido protocollo di sicurezza che prevede l’impossibilità di incontrare persone che non abbiano prima subito un controllo del casellario giudiziario, o di avere qualsiasi occupazione. Una donna che pur di trovare un parente ammalato è partita da sola (con un’amica e una pistola) e ha bussato ad una porta che si trova nella stessa strada in cui vive un’intera famiglia da lei mandata in carcere. Una madre orgogliosa della figlia che intende proteggere la memoria della zia di cui poco ricorda. Una donna che sorridendo dice della sua scorta che rimane a fare la guardia al portone del palazzo in cui si trova: «mica li posso acchiappare per le ali e costringerli a salire». Una donna che pur di incontrare le scolaresche e trasmettere quei valori veri che l’hanno portata fin dov’è arrivata non esita a pagare da sé tutte le spese.
 
«Mi hanno strappato tutto, tranne la mia dignità di donna» dice, con orgoglio, parlando di se stessa. E non c’è maniera migliore per descriverla.

Carmen Valisano

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