Senz'acqua, senza soldi e senza sostegno. La zona, un tempo rigogliosa e fiore all'occhiello dell'agricoltura siciliana, rischia il collasso. La denuncia di Salvatore D'Arma, presidente della Confederazione italiana agricoltori. Accompagnata da proposte e valutazioni, finora inascoltate
Piana di Gela, agricoltura in dissesto «Non c’è progettualità, lavoratori lasciati soli»
Nuovo anno stessi problemi per l’agricoltura della piana di Gela. È un lungo rosario quello snocciolato da Salvatore D’Arma, ex assessore all’agricoltura della giunta Crocetta e attualmente presidente della sezione locale della Conferenza italiana agricoltori.
Le difficoltà di un settore al collasso
«È l’ennesima volta che lancio un appello per segnalare le difficoltà di un settore che già soffre di contraddizione note – dice il rappresentante della Cia – come i costi di produzione, la stretta creditizia, una competitività selvaggia da parte di paesi terzi dove non si osservano le norme più elementari a tutela della salute, una burocrazia asfissiante che determina scoraggiamenti ed un governo nazionale che anziché incentivare dal punto di vista non assistenziale ma progettuale il settore agrario lo lascia da solo nelle fauci di un mercato schizofrenico».
Le caratteristiche della piana di Gela
Fin qui il quadro descritto è generale. Quali sono le specificità del territorio gelese? «Da noi si coltiva soprattutto ortofrutta, carciofi e grano, poca cosa. Prima la situazione veniva mascherata dalla presenza industriale – osserva D’Arma – Ci sono state solo promesse da parte della Regione. Sta di fatto che i consorzi di bonifica sono stati aboliti. La questione delle dighe è emblematica per il territorio perché ne è precondizione per un possibile sviluppo. Rispetto ai 28 milioni di metri cubi d’acqua che ha come capacità, la diga Disueri ne può invasare pochissima. Stessa cosa per la diga Comunelli, che si è fatta interrare e ad oggi è fuori servizio. Si registrano importazioni superiori alle esportazioni, si registrano aumenti occupazionali ma di fatto diminuiscono le aziende. Quest’anno ad esempio l’agricoltura cerealicola, per via delle poche piogge, avrà scarsa rendita. Non sorprende che gli agricoltori siano sfiduciati». Nel protocollo del 6 novembre per la riconversione della Raffineria non è stato previsto alcun piano specifico per l’agricoltura. Più volte l’amministratore delegato della Green Rafinery Carlo Guarrata ha sostenuto che l’accordo può fungere da volano per l’agricoltura. Sì, ma come? In che modo? «Non ci può essere sviluppo con la delocalizzazione», dice l’ex assessore, e pronuncia queste poche parole seccamente, come se non ci fosse bisogno d’aggiungere altro.
Ritorno al passato?
A chi sostiene che la piana di Gela dovrebbe ripescare nella propria storia, riprendendo alcune produzioni del passato, D’Arma manifesta il suo scetticismo. «Sul cotone vorrei stendere un velo pietoso: c’è un club interessato a piccoli benefici che rischiano di far smarrire il senso stesso dell’impegno collettivo», è la sua teoria. «È una coltura non competitiva, anzi improduttiva, che assorbe molta acqua e non è remunerativa – continua – Si parla di granoturco ma anche qui la resa sarebbe minima. Il ritorno al passato può andar bene solo se si parla di massa critica e di estensione delle strutture adatte. Sembra quasi che si voglia esportare un museo etnologico. È più importante ad esempio il collegamento con l’aeroporto di Comiso per esportare i nostri prodotti».
Alcune proposte
Partendo da considerazioni generali, in ricordo anche dei lunghi trascorsi da sindacalista Cgil, D’Arma suggerisce alcune ipotesi per far uscire l’agricoltura da una lunga impasse che rischia di soffocarla, e con essa una valida alternativa all’industria nonché un sostegno all’economia della città. «Per prima cosa bisogna evitare l’individualismo. Mettere al centro la questione morale. Bisogna riprendere il mercato ortofrutticolo. Noi avevamo presentato l’idea di un consorzio terra libera, dove ci sono diverse aziende agricole, che ha chiesto di realizzare la filiera agroalimentare: si inizia dalla produzione, si estende alla trasformazione, si concentra l’offerta e si tipicizzano i prodotti, si stabiliscono contatti con la grande catena di distribuzione. Si era già provato a coinvolgere ad esempio l’industria Zappalà. Il mercato doveva essere un punto centrale, e invece è morto da anni. Bisogna rivedere i vincoli ambientali, e cercare di evitare che la questione ambientale sia privilegio di alcuni per attingere solo finanziamenti a danno della collettività. Bisogna evitare la pignorabilità dei beni di produzione per mettere in condizione gli agricoltori di ripartire, convincere le banche a dar credito, riprendere i bandi europei per il settore».
Manodopera al ribasso
Dopo l’inchiesta de L’Espresso nelle campagne del Ragusano, inevitabile chiedersi se anche nella piana di Gela avvengano sfruttamenti del genere. «È certo che la manodopera locale viene superata come richiesta dalle braccia rumene o africane – sostiene D’Arma – Le aziende puntano a risparmiare ma c’è qualcosa che non funziona. Quando con 30 euro a giornata il lavoratore rumeno ti assicura lo stesso lavoro di uno locale, la situazione diventa drammatica. Si deve evitare lo scontro tra poveri, mediando senza penalizzare nessuno. Mi sento di dire che qui non esiste il caporale ma la chiamata singola, di giornata. Prima esisteva quello che io definisco il mercato di piazza (o l’ufficio di collocamento all’aperto, cioè la piazza principale della città, ndr), ora non esiste manco quello».