Petrolio, quelle piattaforme che non producono più Legambiente: «Avviare azioni di smantellamento»

Estate: tempo di tuffi al mare e di piattaforme petrolifere da smantellare. È il senso del report #Dismettiamole – basta con le piattaforme nei nostri mari, pubblicato da Legambiente. Il luogo scelto dall’associazione ambientalista per il lancio del dossier non è stato casuale: Ravenna, nel cui specchio di mare che comprende l’alto Adriatico sono concentrate ben 39 concessioni di coltivazione in mare. In totale sono 69 le concessioni ottenute dalle compagnie energetiche nei mari italiani, che hanno permesso la costruzione di 135 piattaforme e 729 pozzi. Ma è nella Sicilia meridionale, e precisamente di fronte la costa di Gela, che nel 1964 venne installata la prima piattaforma petrolifera a mare. 

Gela1, questo il nome della piattaforma antesignana, dista appena due chilometri dalla spiaggia. E, soprattutto, conta sei pozzi produttivi non eroganti su undici. Insomma: un catorcio, di proprietà Eni, che producendo molto poco greggio non versa da anni neanche un euro di royalties. Recentemente proprio sulle piattaforme gelesi ha concentrato le proprie attenzioni Riscossione Sicilia. Il caso di Gela1 non è isolato. «Elaborando i dati del ministero dello Sviluppo Economico (aggiornati al 12 luglio 2016), abbiamo individuato – si legge nel report – 38 piattaforme e 121 pozzi non produttivi o non eroganti da cui partire. Alcune non più produttivi e quindi da smantellare, altre non eroganti o con attività assai limitata». 

Nel Canale di Sicilia si estrae attualmente sia petrolio che gas. Di fronte il mare di Gela due sono le concessioni attualmente attive, entrambe afferenti ad Enimed (la consociata del cane a sei zampe che si occupa di ricerca ed estrazione dei combustibili fossili): la prima concessione scadrà nel 2017, conta due piattaforme (Gela1 e Gela Cluster) da cui sono state estratte appena 43mila tonnellate di greggio, quindi sotto la soglia delle 50mila tonnellate che permette l’esenzione fiscale; la seconda conta anch’essa due piattaforme (Perla e Prezioso), scadrà nel 2020 ed ha estratto nel 2015 oltre 78mila tonnellate di greggio. Altre due piattaforme, in comproprietà tra Edison ed Eni, si trovano poi di fronte Ragusa e producono gas. 

A queste bisogna poi aggiungere la possibile costruzione di due piattaforme sorelle, la Prezioso K e la Vega B, che potrebbero sbloccarsi se dovesse andare in porto il progetto dell’offshore ibleo. Sono infatti 22 i permessi di ricerca rilasciati nei mari italiani, di cui due interessano le acque siciliane. «A questi permessi – segnala ancora Legambiente – se ne potrebbero aggiungere altri 32 per ulteriori 15.362,6 chilometri quadrati di mare. Sono tante infatti le istanze di permesso di ricerca sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico che potrebbero nel giro dei prossimi mesi terminare il loro iter procedurale». Di queste ben sei sono concentrate lungo il Canale di Sicilia. 

Una corsa all’oro nero che secondo Legambiente non è più sostenibile. Tutt’altro: proprio partendo dai dati pubblici liberamente consultabili sul sito del Mise, l’associazione ambientalista scrive che è «fondamentale avviare un programma di decommisioning delle piattaforme non più operative e al tempo stesso di dismissione delle attività estrattive nel mare italiano». Tra i motivi: la scarsa produzione di greggio nei mari italiani – che nel 2015 si è fermata a 750mila tonnellate che corrispondono al 13,8 per cento della produzione nazionale -, i rischi che le suddette attività industriali comportano per l’ecosistema marino e le altre attività legate al mare, la crisi del settore petrolifero e la riduzione dei consumi. «Le stime ufficiali riguardanti l’intero settore di estrazione di petrolio e gas in Italia parlano di circa 9mila impiegati in tutta Italia – fa notare Legambiente -. Al contrario, il settore delle rinnovabili e dell’efficienza sono in forte crescita e con norme e politiche adeguate potrebbero generare almeno 600mila posti di lavoro».

Andrea Turco

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