«Probabilmente Dio si sente un po’ triste con tutte quelle splendide risposte che gli frullano in testa e nessuno lì in paradiso, mosci come sono, che gli faccia domande all’altezza. Per farvela breve, siamo rimasti che tra qualche mese salgo su e gli faccio qualcuna delle domande io. Così, tanto per farlo sentire utile alla causa».
Lorenzo Vecchio, che aveva scritto con struggente leggerezza questo diario della propria malattia (“Un metro lungo cinque”, edito da Bonanno; ma Lorenzo aveva pubblicato anche – e con lo stesso editore – il romanzo “Mia madre non chiude mai”, Premio Vittorini Opera Prima), è “salito su” il 28 maggio, a soli ventitrè anni. E i genitori, i tanti amici (Lorenzo, regista di “corti”, dirigeva il festival Magma), l’editore avevano deciso di ricordarlo l’11 agosto con una conversazione “in memoria” a cura dello scrittore Roberto Alajmo.
Ma poi è accaduto l’imponderabile, l’insostenibile: a due mesi di distanza dal fratello, quel Dio triste e solo ha chiamato a sé anche il fratello minore, il quindicenne Tommaso. «L’Eterno ha dato, l’Eterno ha tolto. Sia benedetto il nome dell’Eterno» diceva Giobbe stracciandosi le vesti. E occorre davvero una fede appassionata, per tollerare tanto accanimento.
Si pensava, perciò, che la serata “per Lorenzo” non ci sarebbe più stata. E invece il padre l’ha voluta ugualmente; e invece – e sia pure con timore e tremore – Roberto Alajmo s’è fatto convincere a onorarla; e invece un centinaio e più di amici hanno gremito il cortile dell’ex convento di san Domenico ad Acireale.
Unica variante: non più un monologo, magari una rispettosa digressione, dello scrittore palermitano. Un dialogo, invece: tra lui e Nello Vecchio, filosofo del linguaggio ma soprattutto padre straziato di Lorenzo e Tommaso, che con grande coraggio ha deciso di mettersi in gioco, di esibire con pudore le domande assillanti e le provvisorie risposte che si è dato in questi giorni terribili. Perché della morte s’è parlato, non di letteratura; e d’una fede tormentata e tenace, spietata e remissiva come la biblica colluttazione con l’Angelo. Come quella di Nello, cristiano convinto (ma convinto anche, con don Milani, di dover esserlo “con pudore”), come quella di Lorenzo, che non si diceva cristiano e però scriveva: «dio , l’ho trattato da pari in questi giorni dio, l’ho insultato e bestemmiato, l’ho trattato da pari, dicevo, e questo me lo ha fatto sentire più vicino».
Difficile il compito di Alajmo: non più affabulatore come gli è caro, ma timido inquisitore, imbarazzato e timoroso ospite laico nel tempio d’un dolore che non tollera la parafrasi e il commento, e d’una fede che Alajmo confessa subito di non condividere. Ma per ciò stesso più dirette e incalzanti le sue domande; e più schiette ed essenziali le risposte di Nello, scavate nell’anima con uno sforzo che l’apparente serenità anziché celare mette a nudo.
E sia pure dietro lo “schermo” (così lo definisce Alajmo) d’una sacca colma di libri, di volta in volta estratti e aperti a citare sant’Agostino e il luterano Bonhoeffer, lo stesso don Milani o David Maria Turoldo, a illustrare grazie a loro un percorso, a raccontare così una crisi, a rispondere con la paziente ma risoluta intelligenza con cui Giobbe rispondeva agli amici, a dire un’idea di Dio che non sia scontata e consolatoria, che non sia pigramente confessionale. Ma anche a esibire coraggiosamente le proprie incertezze, i vuoti scavati in quel percorso dal silenzio di Dio o – che è lo stesso – dall’atroce mistero dell’inspiegabile: la schiva adolescenza del giovanissimo Tommaso, il suo volo improvviso e precipite.
Antonio Di Grado
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