Palermo vista da Andrea Di Marco, città millenaria stordita dal sole e illuminata dall’ombra

di Barbara Morana

Venerdì 12 luglio, di pomeriggio, mi sono recata con un’amica alla Cala, al molo Sailem per essere precisi, per l’inaugurazione dell’installazione di Andrea Di Marco “Ape Bianca”, omaggio della Città di Palermo al pittore palermitano scomparso improvvisamente all’età di 42 anni lo scorso novembre.

Dopo avere aspettato che si riunissero attorno alla scultura le autorità, la famiglia e un discreto numero di persone, l’Assessore alla Cultura del Comune di Palermo Francesco Giambrone ha tagliato il nastro rosso con cui era impacchettata l’Ape Bianca di Andrea Di Marco.

Dopo aver ricordato il pittore palermitano insieme alla famiglia, l’Assessore ha passato la parola a chi di competenza avrebbe dovuto spendere due parole per raccontarci l’aspetto tecnico e formale dell’opera appena installatasi nello spazio pubblico, magari in compagnia dell’associazione e di tutti coloro che questa scultura l’hanno voluta, dedicandoci tempo ed energia.

In effetti, nel quasi religioso rispetto della locuzione “spendere due parole”, chi di competenza ha detto: “Non c’è niente da aggiungere, l’opera parla da sé”, la madre dell’artista ha aggiunto con commozione, quasi a voler colmare quest’economia di parole, che l’opera era bianca e pura come Andrea e poi ognuno per i fatti propri ad elogiare privatamente la splendida scultura.

Sono rimasta di stucco, ma pare che questa mancanza di spiegazioni abbia shoccato solo me, visto che gli articoli che ho letto sull’evento non accennano al raccapricciante episodio. Forse sono rimasta delusa perché, a differenza degli altri, io non conoscevo Andrea Di Marco perché ho vissuto altrove, se per quello non ho avuto neanche il piacere di conoscere personalmente Michelangelo o Lichtenstein, di fatto non credo fosse necessario conoscerlo visto che si trattava di un evento pubblico che consegnava alla città di Palermo ed ai palermitani un’opera d’arte concepita da un artista di talento per la sua città e ormai integrata nei suoi spazi vitali.

Adesso, al di là del fatto che le opere secondo me raramente parlano da sole, o almeno raramente lo fanno in modo univoco, fortunatamente direte voi, ed anche se lo facessero, in queste occasioni è doveroso precisare, affermare, ribadire “il perché” e “il per come” della genesi dell’opera, della scelta dell’artista, del luogo, senza contare il dato di fatto che per un’artista come Andrea Di Marco di parole se ne potevano spendere migliaia.

Fatta questa premessa, vi racconto quello che ho visto.

Ho visto un’ape sostare stracarica di cassette della frutta sul molo Sailem al porto della Cala di Palermo. Era bianca, estremamente plastica come quei calchi di gesso bianco usati per la fusione a cera persa, che popolano le gipsoteche di tutto il mondo, era volutamente monocroma, semmai il bianco fosse un colore, infatti generalmente non lo è, ma questo bianco forse… essendo il risultato dell’insieme di tutti i colori che formano la vivace paletta di Andrea Di Marco pittore, diventa l’unico colore che Di Marco scultore poteva usare…

Il bianco dunque colore come lo fu per Renoir e Manet, ovvero al contempo affermazione e negazione dell’atto creativo, luce, ombra, variazione cromatica, incidente ottico, affermazione pittorica, chi lo sa?

Le cassette s’intasano nello stretto spazio del pianale della mitica Ape Piaggio, conversano, litigano, si accomodano nello stretto spazio assegnatogli, le cassette metafora del mondo in cui viviamo, affollato spazio da condividere tra uomini e cose che soffrono la smania di emergere, alcune aspettano invano di essere notate, altre ormai rassegnate hanno già trovato la loro ragion d’essere nell’ombra.

Un sibilo sembra accompagnare il movimento immaginario di quel monumento al vuoto, di quel mausoleo al pieno, ecco a cosa mi fa pensare esattamente l’Ape Bianca di Andrea Di Marco, ad una danza di pieni e vuoti, dove la luce, capricciosa regista, soffermandosi ora qui ora lì restituisce allo spettatore una sorta di icona Pop senza Glamour, una diva dimenticata da tutti che ha perso la patina che la faceva brillare, usata dal tempo e dall’indifferenza generale. Siamo lontani dalle lattine di zuppa di Andy Warhol, ma ci avviciniamo pericolosamente all’estrema concettualizzazione degli achromes artificiali di Piero Manzoni.

Ma quello che l’opera secondo me trasmette più di ogni altra cosa è un’immensa malinconia per quello che è stato e non è più, una Palermo sospesa nel tempo, un regno dove l’Ape Regina veglia sul lavoro silenzioso e metodico di tante cassette che vivono e muoiono nell’ombra, città millenaria che sonnecchia, stordita dal sole e illuminata dall’ombra, che nell’opera di Andrea Di Marco si fa plastica malinconia e squillante contestazione


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