Palermo, morte al Policlinico

Nei giorni scorsi abbiamo appreso dai Telegiornali e dalla carta stampata della morte di una donna di 34 anni, madre di un bimbo di 7 mesi, avvenuta al Policlinico universitario di Palermo, per un sovradosaggio di farmaci chemioterapici (‘appena’ 10 volte il dosaggio terapeutico). Una storia incredibile dove la negligenza si somma all’imperizia.
Il 7 dicembre scorso, secondo i resoconti di cronaca, la paziente si reca presso il Policlinico di Palermo. Colpita da un tumore, da qualche tempo segue un ciclo di chemioterapia. Quella mattina, subito dopo la dimissione (queste terapie vengono eseguite in Day Hospital), a casa, la paziente si sente male. Sempre secondo alcune notizie di cronaca (al momento tutte le cartelle sono secretate perché atti di un’inchiesta condotta dalla magistratura), la paziente avrebbe avuto un attacco di “gastrite” e sarebbe stata riportata al Policlinico.
Dopo il ricovero le sue condizioni peggiorano. Viene trasferita alla Rianimazione dello stesso Policlinico, dove muore dopo un’agonia (sicuramente molto dolorosa) durata circa 20 giorni, nonostante l’attuazione di tutti i possibili rimedi (si è anche prospettato se sottoporre in estremis la paziente ad un trapianto di midollo).
Stando sempre alla cronaca, durante l’esecuzione del ciclo di chemioterapia l’infermiera proposta alla somministrazione del farmaco si sarebbe accorta dell’errore e lo avrebbe sottoposto all’attenzione, si dice, del medico di guardia, che avrebbe, per ben due volte, confermato lo stesso dosaggio .
Fin qui le frammentarie notizie lette nei giornali. Adesso proviamo a riflettere su quello che è avvenuto.
Cominciamo con una precisazione. I farmaci chemioterapici agiscono, tra l’altro, sulla capacità riproduttiva delle cellule, inibendola. I livelli a cui avviene tale inibizione sono vari, ma il risultato è sempre lo stesso: impedire che la cellula tumorale, che presenta una velocità di riproduzione maggiore rispetto a quelle normali, venga bloccata a preferenza di queste. È pur sempre vero che comunque sono dei farmaci che agiscono su tutte le cellule in maniera incondizionata.
Se è vero che i farmaci chemioterapici agiscono anche sulle cellule normali, significa che provocano un’inibizione alla riproduzione anche di queste, e ciò è tanto più vero quanto più sono farmaci gravati da pesanti effetti collaterali. La nausea, il vomito o la diarrea sono legati ai danni a carico delle cellule del tubo gastroenterico. La famigerata caduta dei capelli è legata al fatto che le cellule del bulbo pilifero sono quelle a rapida riproduzione, quindi tra le prime ad essere danneggiate.
Alcuni farmaci sono gravati da danni al miocardio, ma quasi sempre questa è una tossicità non immediata. Tutti i chemioterapici danneggiano , inevitabilmente, più o meno, il midollo osseo, provocando problemi (nel linguaggio medico, si definiscono ipoplasie transitorie); infatti, tutti i pazienti che a queste terapie vengono sottoposti devono fare dei controlli ematici dopo circa 2 settimane dal ciclo di chemioterapia per valutare la concentrazione per valutare alcuni parametri (piastrine, emoglobina, e altro). Se questi parametri non si presentano entro certi limiti si deve procedere con farmaci che stimolino il midollo osseo o, addirittura, è necessario fal saltare al paziente un ciclo di chemioterapia. Il rischio sarebbe, infatti, in ultima analisi, sarebbe quello di sopprimere l’attività del midollo osseo, lasciando il paziente in balia di infezioni (neutropenia), emorragie (piastrinopenia), ipossigenazione dei tessuti (anemia). Se tutti questi effetti collaterali si presentano contemporaneamente è un dolorosissimo disastro.
I farmaci chemioterapici vanno utilizzati in unità di grandezza di decine di volte inferiore rispetto ad altri farmaci come, ad esempio, gli antibiotici (questi per definizione non agiscono sulle cellule dell’uomo, ma su quelle dei batteri).
La prima anomalia, nella tragica vicenda di questa donna, è rappresentata, verosimilmente, da negligenza: è stata prescritta una unità di grandezza 10 volte superiore alla prescrizione ordinaria. La seconda anomalia – imperizia? – è la conferma di tale prescrizione anomala.  Quindi il personale infermieristico: se l’infermiera, come hanno raccontato i giornali, non era convinta del dosaggio, perché aveva somministrato altre volte lo stesso farmaco a dosaggi nettamente inferiori, si sarebbe dovuta rifiutare di somministrare il farmaco.
Altra riflessione: chi era il medico di guardia? Uno strutturato o un medico ‘specializzando’ di cosiddetta “sottoguardia”? Nel caso si trattasse della seconda ipotesi, beh, questo metterebbe l’accento su certe abitudini proprie delle strutture mediche universitarie. E’ vero, ad esempio, che il medico strutturato, pur risultando ufficialmente responsabile della guardia di reparto, a volte consiglia, a volte intima al medico ‘specializzando’ di non chiamarlo e di “sbrigarsela” da solo?
Come per l’affondamento del Titanic e per gran parte delle tragedie umane, tutto accade sempre per un concatenarsi di errori, spesso legati alla superficialità; sarebbe sufficiente che uno solo fosse stato l’anello mancante perché la tragedia non accadesse. Ma se errare è umano – e sicuramente gli operatori della sanità non sono esenti da errori, essendo umani anche loro, come non se sono esenti i giudici, gli avvocati e tutte le categorie dell’agire umano – che almeno ognuno di noi abbia il buon testimonio delle propria coscienza che gli dice: hai fatto tutto ciò che dovevi con il massimo delle scienza e della coscienza? L’evento era veramente ineluttabile? Purtroppo, non sembra questo il caso.

 

 


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