«Umbè…Io non sono pentito per niente di quello che ho fatto». È il 18 marzo 2016 quando Giuseppe Graviano, boss di Brancaccio, lo rivela a Umberto Adinolfi, camorrista. Nessuna esitazione, nessun giro di parole per fuorviare quei microfoni nascosti di cui spesso, e a ragione, ha immaginato l’esistenza. A poco sono serviti i 24 anni passati in regime di 41 bis, tanti sono infatti gli anni trascorsi da quel 27 gennaio 1994. È il giorno del suo arresto, della sua «disgrazia», come la definisce lui. Arresto che arriva come un fulmine a ciel sereno, rompendo un clima di surreale normalità. «Non me l’aspettavo, perché ero circondato da una copertura favolosa. Com’ero combinato io solo il Signore lo sa – dice all’amico di passeggiata – Nemmeno ci credevano: “può essere mai che fa questa vita? Vita normale”», sembravano dire, secondo lui, le facce degli agenti che lo trovano.
Lo catturano a Milano. Ci riescono grazie all’aiuto di un pentito che lo conosce, Giovanni Drago, che racconta loro di una cicatrice. Sarà quel particolare decisivo a mettere fine alla latitanza del boss di Brancaccio, parte della quale – la più romantica – trascorsa a Sirmione. Nemmeno l’ombra di un pentimento o di un rimorso, insomma, da parte dell’uomo ritenuto responsabile, insieme ad altri, delle stragi del ’93 di Firenze, Milano e Roma, e di essere il mandante dell’omicidio di padre Pino Puglisi. Ad emergere, piuttosto, fra un commento e l’altro ai programmi tv e al cibo servito nel carcere milanese, sono solo lamentele. «Il 41 bis è una tortura», lo ha sostenuto un giudice californiano che non ha voluto estradare un boss della famiglia Gambino, una delle più potenti della mafia americana. E Graviano sottoscrive in pieno, ridendo insieme al compagno Adinolfi.
D’altronde, un uomo convinto di essere finito in galera solo perché tradito e messo in mezzo da altri di cosa dovrebbe pentirsi? «Umbè – torna a dire all’amico, ma questa volta è gennaio 2016 – la gente non sa cosa c’era di mezzo, io non ho mai ucciso a nessuno, la gente è ingrata. Ti dico solo che mi trovo in carcere da innocente». Sono i giornalisti, secondo il boss di Brancaccio, che «hanno creato il personaggio, io mi ritrovo con tutti questi ergastoli senza averli fatto. Io non ho mai fatto un reato nella mia vita. Umbè non mi fare parlare, tu dici che a volte pensi alcune cose e ti innervosisci e io che dovrei fare, mangiare le sbarre?». Un uomo perbene cresciuto in una famiglia perbene, rovinata dalla mafia. «A mio padre lo hanno ammazzato perché non gli voleva pagare il pizzo – dice, riferendosi al boss Totuccio Contorno – Loro lo hanno preso e lo mandavano ad ammazzare le persone mentre era… mentre era…», ma non finisce neanche la frase.
Un bambino cresciuto segnato dalle ingiustize, così si descrive all’amico di detenzione. Ingiustizie che, tuttavia, nel tempo non hanno scalfito il suo animo puro. «Sono troppo altruista, io dovrei odiare tutto, tutto di quello che ho subito… Umbè a me hanno ammazzato un padre, un lavoratore che pagava le belle tasse, lo ha ucciso Contorno, lo sapevano tutti e lo hanno preso come pentito e lo Stato lo protegge pure». Una mafia che lo ha rovinato, insomma, ma della quale conosce nomi e dinamiche, persino colpi di stato interni mai realizzati contro u contadinu, il capo dei capi in persona, e personaggi pericolosi: «Quindi i Madonia sono poco raccomandabili?» «Minchia se sapessi che pericolo. Sono odiati da tutti». Totò Riina è addirittura sul punto di farne fuori uno della famiglia, ma salta tutto, mentre le confidenze di Graviano vengono bruscamente interrotte da un agente del carcere sopraggiunto ad annunciare la fine della passeggiata.
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