«Grazie al Pagliarelli. Perché non sono più l’Angela che è entrata qui nel 2017». Una frase semplice, breve, poi un pianto forte, intenso, che arriva alla fine di un pomeriggio particolare. Almeno per le detenute del carcere di piazza Cerulli, che si sono messe alla prova e hanno affrontato la platea accorsa a vederle cimentandosi nello spettacolo diretto da Claudia Calcagnile, In stato di grazia, liberamente ispirato al testo La lunga vita di Marianna Ucrìa di Dacia Maraini. Il terzo che viene messo in scena dalla compagnia di cui fanno parte: OltreMura. Attiva dal 2015, da tre anni la compagnia si pone l’obiettivo di rendere il carcere un luogo di cultura e produzione teatrale. «È un modo, questo, che permette non solo di lasciare qualcosa alle donne che vi partecipano e alla gente che le viene a vedere, ma che riesce a lasciare un contributo al teatro stesso», spiega la regista a MeridioNews. Attrici in tutti i sensi, per uno spettacolo che definire tale, forse, è quasi riduttivo. Perché è molto più della solita sensazione, quella che alla fine ti lascia addosso, che ti porti con te, anche quando sei già lontano chilometri da quel carcere, da quelle mura.
Un luogo che, però, bisogna dirlo, ci mette del suo e che rende tutto diverso, emozionante. Le sensazioni che trasmette trovarsi per i viali del Pagliarelli, già appena arrivati, non sono infatti comuni. Non ci sono tappeti rossi e hostess in divisa a consegnare brochure, ma guardie penitenziarie sorridenti e armate. No, di solito qui non c’è niente. Ed è questo uno degli aspetti più belli, più curiosi. Perché sin dal tuo arrivo sai bene che stai penetrando nel cuore di un luogo normalmente inaccessibile. Ti appropri quindi di quelle poche ore lì dentro dando via libera a una curiosità affamata, con cui catturi ogni dettaglio: le grate bianche alle finestre lontane, i viali nudi, i corridoi larghi all’interno, i dipinti alle pareti. E quei padiglioni: del mare, del vento…chissà a quali mondi vorrebbero condurre con questi nomi. E poi la sala adibita a teatro, con le sue poltroncine rosse e nere e qualche sedia di plastica in più, un palco alto e tanti piccoli teli bianchi a fare da scenografia.
Infine l’attesa, in un sottofondo brulicante di voci, di curiosità. Sono in tanti quelli che sono venuti oggi, e i più numerosi sono gli studenti di Psicologia e Scienze umane. Poi, finalmente, il silenzio e il buio. Eccole, sono tutte donne, poco più di dieci. Si muovono per il palco concentrate, assorte, emozionate a loro volta. E per questo prive di quelle sovrastrutture tecniche tipiche dell’attore consumato, che il palco lo calca per mestiere. «Sono un’ex bambina, un’ex ragazzina. Sono un’ex tradita, aggredita, delusa, umiliata. Un’ex felice, un’ex tossica, un’ex innamorata. Mi chiamo Maria, ho una storia». Tante voci, tutte diverse, che poi diventano una sola e che danno il là a uno spettacolo fatto di tanti pezzetti, di tante scene, di tante storie dentro a una sola. Per una trama che si costruisce e si snoda per immagini e suoni. Non servono troppe parole. Più di tutto parlano i volti di queste donne, particolarmente intensi, tesi. In una costruzione quasi concettuale e che lascia libero lo spettatore di tirare fuori interpretazioni differenti.
Sono tutte, in modi diversi, delle spose. Sono, più di ogni altra cosa, persone e non personaggi. E su quel palco oggi ci sono state le loro storie, i loro sbagli, il loro coraggio. In stato di grazia è infine una riflessione sul tema dell’identità, l’inizio di un viaggio di cui non si conosce la meta, un tentativo di sottrazione al proprio ruolo sociale. Protagonista della narrazione è Marianna, ragazza sordomuta, costretta ad andare in sposa. L’impossibilità di sottrarsi al suo ruolo di mugghieri la obbliga a rifugiarsi in un mondo altro, dove la lettura diventa strumento di sovversione tale da ribaltare dogmi e pregiudizi, stereotipi e convenzioni sociali. Reso attraverso donne che hanno fatto un lavoro vero sulla propria, di identità, fuori da quel palco, e che hanno poi saputo restituire agli altri. È tutto questo che rende l’opera firmata da Claudia Calcagnile molto di più, sta tutta lì la cifra che fa la differenza. Nel suo essere tanti mondi, tante strade, tante vite.
«Attraverso i gesti e la loro ripetitività hanno dato l’idea di come si sta qui dentro, restituendo quella lentezza e quel senso di smarrimento che spesso si provano, gli stati d’animo che cambiano in un attimo, i minuti che sembrano ore interminabili. Non è certo semplice stare qui – commenta la direttrice del carcere, Francesca Vazzana -. Questo è un percorso, e chi viene a vederle diventa, anche se per poco, parte di quel percorso. Qualcosa che diventa autoconsapevolezza e coraggio di lottare per qualcosa, sempre». Lo spettacolo, inserito tra gli appuntamento di Palermo Capitale della Cultura, sarà parte di qualcosa di importante anche l’anno prossimo. A prometterlo è il consigliere comunale Giulio Cusumano, che lo dichiara ammesso di diritto al Festival delle compagnie carcerarie in previsione a Palermo per il 2019. Una bella promessa, per uno spettacolo capace di restituire tanto quanto riesce a dare a chi in prima persona decide di farne parte.
(Fotografie di Salvo Veneziano/Palermofoto)
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