Oops, I lost the bus!

Pechino si occidentalizza e il Sun annota. Complici gli scorsi Giochi Olimpici, l’attenzione della stampa internazionale si è riversata con particolare entusiasmo sulla capitale cinese; cronisti e visitatori non hanno perso tempo per curiosare tra vie e negozi, scovando bizzarrie e singolarità da far conoscere al mondo. Così ha fatto anche Dave Masters, che per il tabloid inglese ha riportato un’esilarante galleria di dodgy translations, traduzioni dal cinese all’inglese tanto approssimative quanto originali. Il Chinglish – l’inglese ‘made in China’ – non è una lingua da sottovalutare affatto. Perciò, tra un cartello e un’insegna, ecco che capita di essere avvisati della presenza di un crudele «deformity man’s passage», ovvero di un bagno per disabili; premurosi avvisi raccomandano, invece, di stare alla larga da pericolose belve feroci («there are dangerous’ animals, please don’t near»), mentre un annuncio ricorda che non si può né «smoking» né, per analogia, «photoing».

A questo punto, dopo aver osservato attentamente divieti e ammonimenti degli amici cinesi, non rimane che ampliare un po’ le nostre prospettive e volgere uno sguardo agli errori/orrori che Italiani e stranieri commettono cimentandosi con un’altra lingua.

E si potrebbe cominciare con l’arte culinaria, per la quale siamo tanto rinomati. Nei ghiotti menu di pub e pizzerie italiane campeggia, tra mille prelibatezze, il panino (o la pizza) con lo «speak». Lo «speak» − al secolo speck − a quanto pare è un salume con ottime capacità discorsive: se al ristorante la conversazione vi sembra affettata, non chiedetevi perché. Poi capita pure di sentir parlare (ma sempre più sporadicamente rispetto allo «speak») di «‘u Cordon Blu», detto con una squisita naturalezza siciliana. Trattasi ovviamente della versione sicula rivista e corretta del Cordon bleu; mentre il Cordon Blu esiste davvero, ed è un grazioso ( e non gustoso) uccellino dell’Africa centro-occidentale. E  pazienza se ogni tanto capita di confondere un chicken con una kitchen. In fondo, entrambi hanno a che fare con il mangiare.   

Si sa: fidarsi è bene e non fidarsi è meglio. E questo vale anche per gli amici, specie se sono falsi come quelli che accidentalmente si incontrano studiando lingue.

In Inghilterra una ape non punge, ma in compenso mangia molte banane; per fare un complimento occorrerebbe mettere da parte l’espressione you’re an  ass e optare per qualcosa di più polite; e se sulla CNN un giornalista comunica che gli aliens sono sbarcati, è probabile che stia parlando più semplicemente di immigrati clandestini. E.T? Sarà per un’altra volta. Sorvoliamo, poi, sull’innocente er sucht eine große Katze (lui cerca un grosso gatto) − che è molto falsch e poco Freund  e sul preservative inglese («conservante»). Inoltre, in tedesco «fare un bel Traum» non è una contraddizione in termini, ma vuol dire  che si è dormito beatamente (Traum: sogno); se vi tirano dei Konfetti, non pensate a un matrimonio, ma al Carnevale (Konfetti: coriandoli); se qualcuno vi chiede di putzen, non vi sta facendo una proposta feticista, ma, al contrario, vi ordina di pulire. E guai a tradurre letteralmente (lo dico per esperienza): consideriamo it makes sense: “fa senso” ha un significato leggermente diverso di “ha senso”.

Ma non esistono solo i false friends. Qualche amico vero (in senso lato e in senso stretto) lo si trova sul serio. Uno di quelli con cui ci si può sfogare tranquillamente senza rischiare di essere interrotti, uno di quelli che te le lascia passare tutte – ma proprio tutte – in nome dell’amicizia. E quando dico “tutte”, intendo che ti lascia imbastardire con molta generosità la sua lingua perché, tanto, può trattarsi solo di «lovely mistakes». Ed ecco che mi ritrovo a bombardare la mia povera amica inglese con il resoconto della mia (pessima) giornata precedente. «Ciliegina sulla torta − le dico − ieri ho perfino perso l’autobus, I lost the bus». E continuo a dare sfogo al mio nervosismo. Poi ci penso un po’ su, riavvolgo il nastro, riascolto nella mente quello che ho detto, faccio un esame di coscienza: l’avrò annoiata? Ho parlato troppo veloce? I lost the bus? Me la sono tirata troppo per le lunghe? E… Oh-oh , eccolo là, l’errore, l’infame: I lost the bus? Siamo sicuri si dica così?  Suona proprio male. Chiedo lumi alla malcapitata: «senti, ma si dice I missed the bus, non lost, vero? ». Risposta (molto polite): «sì, si dice to miss the bus, non lose, ma è  un errore tenero, a lovely mistake: sembra che hai perso l’autobus perché è una cosa piccola piccola…». Solo un lovely mistake, dunque: niente di grave. Ne prendo atto, anche se mi riesce difficile immaginare la faccia del mio professore intenerito dal mio ingenuo errore, quando sosterrò l’esame.

Poi arriva l’ora della vendetta, e tocca a me essere comprensiva e perdonare un «lovely mistake». Stavolta al centro della questione c’è lo spinoso problema dell’ausiliare (e dei danni che può fare). Qualche giorno fa mi ha scritto un’altra amica inglese. Per dimostrarmi il suo affetto, esordiva esclamando «ti ho mancato!». Pensare di essere il bersaglio di una sparatoria non mi tranquillizza, e voglio credere che intendesse dire «mi sei mancata». Se non sapessi che è una fervente pacifista,  correrei  già ai ripari. Se capiterà l’occasione (e, quindi, se ne esco viva), le risponderò che ha commesso  un piccolo, innocuo, lovely mistake: un errore tenerissimo, che avrebbe potuto costarmi la vita. Non se ne avrà a male, in fondo è pur sempre una brava ragazza.

Ci sarebbe ancora da ricordare la triste storia delle vocali lunghe e brevi. Il confine tra shit e sheet può a volte non essere afferrato dagli Italiani, neanche se perbenisti. E può pur essere legittimo ordinare un cocktail in un bar italiano, ma non sta bene chiedere a un cameriere inglese una coke pronunciandola come se si dicesse cock (che, nella migliore delle ipotesi, significa «gallo»).

Infine, vaglielo a spiegare, all’ignara francese entusiasta per la laurea appena conseguita, che si dice «ce l’ho fatta!» e non «l’ho fatta!».

E viene da riflettere sulle stranezze, le particolarità, l’originalità della lingua. Sorgono addirittura dubbi amletici, quesiti da perderci la testa, assurdi rompicapi perfino relativamente alla propria, di lingua: perché posso «ridere a crepapelle» e «piangere a dirotto», ma non posso «piangere a crepapelle» o «ridere a dirotto»? Cosa mi impedisce di scoppiare in un «fragoroso pianto», mentre una «fragorosa risata» è lecita?


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