Il contrammiraglio Carlone ha chiarito, davanti ai deputati del comitato Schengen, gli aspetti più controversi dell'impegno delle organizzazioni non governative nel Mediterraneo. «Tutti i soccorsi sono avvenuti dopo nostra autorizzazione. Pochi interventi in acque territoriali libiche e mai in maniera autonoma»
Ong, per Guardia costiera non incidono sulle partenze «Contatti diretti con i trafficanti? A noi non sono noti»
«La presenza delle navi delle Ong non comporta un fattore di attrazione, non danno impulso a maggiori partenze dalla Libia». Parla a lungo il contrammiraglio della Guardia costiera Nicola Carlone, sentito stamattina dal comitato Schengen per fornire informazioni utili rispetto ai salvataggi dei migranti in mare, dopo le accuse mosse dalla Procura di Catania ad alcune organizzazioni non governative. Una voce autorevole, considerato che tutti i soccorsi, sia quelli operati dai mezzi militari che da quelli privati, vengono coordinati dal centro di soccorso del coordinamento marittimo della Guardia costiera che ha sede a Roma.
Carlone risponde, punto per punto, alle domande dei deputati. A cominciare proprio dalle modalità di intervento delle Ong. «Tutte le operazioni di soccorso sono avvenute a seguito di una nostra autorizzazione – spiega -. Nel 2016 è capitato solo 16 volte che sono stati effettuati soccorsi in acque territoriali libiche, mai in maniera autonoma, sempre su nostra autorizzazione e dopo aver chiesto il permesso al centro di soccorso libico che a volte ci ha autorizzato e altre no. In ogni caso le unità delle Ong o i mercantili sono sempre autorizzati. Se ci sono contatti diretti a noi non è noto».
Tra le accuse mosse dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro alle Ong c’è anche lo spegnimento dei transponder per non farsi identificare. «In acque libiche può capitare, ed è capitata – spiega Carlone – una mancata propagazione non voluta del segnale visto che è legata al canale Vhf che può cambiare anche in base al periodo dell’anno. Se però in zona c’è un nostro mezzo il segnale viene propagato in maniera più precisa». Il contrammiraglio fornisce i numeri dei mezzi delle Ong impegnati nel Mediterraneo centrale – «uno, quello di Moas, nel 2014; tre nel 2015; dodici, gestiti da dieci Ong, nel 2017» – ma smentisce che questo aumento sia stato determinante nel cambiare il modo di agire dei trafficanti.
«Da diversi mesi – continua – si è registrato un minor numero di chiamate dirette da parte dei migranti attraverso telefoni satellitari o di parenti, mentre sono aumentate le segnalazioni soprattutto da parte delle navi militari, ma anche di mercantili e navi delle Ong. Questo dipende presumibilmente anche dalla presenza di più navi militari a largo delle coste libiche. Secondo la mia esperienza la presenza delle Ong non comporta di per sé un fattore di attrazione, lo dimostra il fatto che in questi giorni il tempo è buono ma non sta succedendo niente, il fenomeno è governato dalle decisioni delle organizzazioni criminali».
E non solo. Secondo il contrammiraglio, questo scenario spiegherebbe anche il crescente uso di gommoni e imbarcazioni sempre più scadenti da parte delle organizzazioni criminali. «Il gran flusso di navi nelle acque libiche – non più solo mercantili in transito, ma anche navi militari più o meno stabilmente presenti nell’area, così come le navi di soccorso delle Ong -, così come la distruzione dei cosiddetti barconi in legno, condotta da autorità governative italiane e di altre paesi europei, sono sicuramente tra i fattori che possono aver indotto le organizzazioni criminali a un maggiore impiego di imbarcazioni di più facile reperibilità e di minor costo».
Carlone ha quindi voluto chiarire un altro punto molto discusso nelle ultime settimane: cioè la definizione del primo luogo sicuro di sbarco. «Per evitare facili equivoci – afferma l’ufficiale – il porto sicuro di sbarco deve essere un luogo dove la vita delle persone non è più minacciata e dove si può far fronte ai loro bisogni fondamentali: cibo, riparo e cure sanitarie. Non è considerato sicuro un luogo in cui la persona può essere soggetta a pena di morte, tortura o trattamenti inumani e degradanti, o anche discriminazione di razza, nazionalità, sesso. Questo porto può anche essere in un altro Stato costiero rispetto all’Italia se è più vicino, tuttavia noi possiamo solo chiedere, ma la nostra richiesta può anche non essere accolta».
E così, racconta il contrammiraglio, è successo sia con Malta che con la Tunisia. «Malta ci dice spesso di no, un mese fa abbiamo chiesto due volte di sbarcare in Tunisia ma ci hanno negato il permesso. In questi casi – continua – lo Stato a cui appartiene il centro soccorso che coordina le operazioni ha l’obbligo, per legge, di individuare un porto nel proprio Paese. Malta in particolare ha una vastissima area Sar (la competenza di ricerca e soccorso ndr), ma è l’unico Paese europeo che non ha accettato le linee guida sul porto sicuro di sbarco. L’area Sar maltese è la prima che incontra i flussi dalla Libia e Malta avrebbe corso il rischio di essere sola di fronte a un fenomeno epocale. Quindi le autorità maltesi tendono a non intervenire sui flussi che hanno come destinazione l’Italia».
In conclusione, Carlone ha indicato la strada da seguire per affrontare «un fenomeno epocale e strutturale». «La soluzione – dice – non è in mare, ma in Libia, nei paesi di transito e di origine. Non potendo immaginarci risultati immediati, è inevitabile che l’Italia rimarrà esposta ai flussi e ai naufragi, l’unico modo per intervenire è che tale onere venga ripartito tra tutti i membri dei Paesi Ue e della comunità internazionale, va rivisto il regolamento di Dublino».