Morire tentando di rubare delle arance. Due anni fa, il caso della Piana di Catania aveva fatto scalpore, dividendo l’opinione pubblica. Oggi, nell’aula della corte d’Assise del tribunale di Siracusa, è il giorno dell’udienza del processo per il duplice omicidio e il tentato omicidio avvenuti nella notte tra il 9 e il 10 febbraio del 2020 in contrada Xirumi, a cavallo tra le province di Catania e Siracusa, dedicata all’esame dei due imputati: il custode del fondo agricolo, il 44enne Giuseppe Sallemi, e il pensionato 73enne Luciano Giammellaro. Entrambi accusati di avere ucciso a colpi d’arma da fuoco due uomini che si erano introdotti nella campagna – Massimo Casella e il figlio 18enne della sua compagna, Agatino Saraniti – e di avere ferito gravemente l’unico sopravvissuto, Gregorio Signorelli, che adesso è un testimone chiave. Una prima udienza per questo, in realtà, era già stata fissata per venerdì 4 marzo ma è stata rinviata a causa di un problema tecnico nel collegamento da predisporre dal carcere in cui si trova uno dei detenuti.
Dopo essere stato arrestato, Sallemi aveva confessato di avere agito da solo e per legittima difesa, davanti a una presunta reazione degli uomini, scoperti a rubare nella campagna che lui vigilava. Una versione smontata dai risultati dell’autopsia e che lui stesso, in seguito, avrebbe parzialmente ritrattato. Giammellaro – per gli inquirenti anche lui una sorta di custode non ufficiale -, si è invece sempre professato innocente. A parlare di una terza persona presente quella notte nell’ampia scena del crimine era stato proprio il sopravvissuto Signorelli, in un’intervista esclusiva rilasciata a MeridioNews mentre si trovava ricoverato all’ospedale Garibaldi centro di Catania: «Erano in tre. Sono arrivati con due macchine ed erano già armati». Loro, invece, erano tutti e tre disarmati. Una versione che Signorelli ha ribadito durante l‘incidente probatorio e che è stata confermata dalle analisi del gps e dei tabulati telefonici. Dall’inchiesta è emerso che il terzo uomo era il figlio di Giammellaro che, però, non avrebbe partecipato all’azione e che non è stato indagato.
In attesa che i custodi parlino dal banco degli imputati, sono state acquisite le intercettazioni: quasi sei ore, tra telefoniche e ambientali, captate nella stanza d’ospedale dove era ricoverato Signorelli, nelle auto di alcuni familiari degli imputati e nelle sale colloqui delle carceri dove sono detenuti. Dialoghi tutti in dialetto stretto che sono stati tradotti e corredati anche dalla descrizione della gestualità. Il 14 febbraio, il figlio di Giammellaro è in macchina con il fratello di Sallemi, che ancora è il solo a essere stato fermato e a fornire un racconto che non convince, mentre il 73enne si è rifugiato in un casolare di campagna. I due parlano di un certificato medico con cui uno psichiatra in ospedale avrebbe prescritto a Sallemi dei farmaci antidepressivi ma «a titolo di amicizia, senza carta scritta», cioè senza nessuna documentazione. Adesso, in vista del processo, servirebbe una relazione che però lo specialista non vuole fare. Un rifiuto di fronte al quale non ci si può arrendere: «Sì, ma metti che c’è un documento che giustifica che Giuseppe aveva problemi psicologici, era depresso, che gli si annebbiava il cervello, che non capiva quello che faceva. È una cosa che ti aiuta». Tanto che il figlio di Giammellaro suggerisce di convincere il medico prendendolo a schiaffi.
Del resto, fino a quel momento Sallemi ha dichiarato di avere agito da solo. Ed è proprio su questo che nella sala colloqui della casa circondariale Cavadonna di Siracusa provano a farlo riflettere la madre, il fratello e la moglie: «Non posso dirgli che c’era anche Tizio con me. Dirò che l’ho chiamato per andarmi a prendere un caffè – dice il custode – Le cartucce le tenevo in mano, ci sono stato tre secondi per caricare il coso. Una fucilata per ascoltare sempre quello più grande, perché a me era venuta l’idea di tirare due fucilate nella mia macchina». Alla domanda sul perché abbia deciso di farlo, risponde la madre con una sola, misteriosa, frase: «Perché lui in quel momento ha capito che c’era un tradimento e gli è venuta l’esasperazione». Nello stesso carcere, poco dopo, arriva anche Luciano Giammellaro. La mattina del 28 febbraio gli fanno visita la compagna e il figlio. Dopo i convenevoli, l’anziano va al dunque: «Gli ho detto all’avvocato che io voglio fare una dichiarazione, gli voglio dire la verità: io ero nel bar che mi stavo mangiando un panino, mi sono arrivate le chiamate, io sono arrivato là, quello (Sallemi, ndr) si è innervosito e io me ne sono scappato che mi ero spaventato, ecco», dice facendo gesti che esprimono perplessità.
La stessa che la compagna di Gemmellaro esprime agli inquirenti nel riportare questa versione, per come l’ha sentita al colloquio, credendoci poco persino lei. Solo di una cosa sembra essere certa: dello stupore di amici e conoscenti per una «legge che sta difendendo i ladri, i delinquenti». Circa una settimana prima, sempre lei viene intercettata mentre è in macchina con la figlia: «Domani ci prendiamo un dispiacere», dice la giovane, in merito al timore per gli gli esiti dell’autopsia sui cadaveri di Casella e Saraniti che il medico legale sta effettuando proprio in quel momento, parallelamente agli accertamenti sulla balistica. «Certo, se ora Luciano gli risulta… – risponde la compagna di Giammellaro – Lui dice che non è stato ma la cosa la vedo brutta, stanno rischiando che si fanno l’ergastolo tutti e due, perché i morti ci sono».
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