Abbate, Arcuri, Ingrassia e Siragusa: per la prima corte d'assise sono loro gli assassini del penalista, brutalmente aggredito il 23 febbraio 2010 e morto tre giorni dopo. I pubblici ministeri avevano chiesto l'ergastolo per tutti e sei gli imputati
Omicidio Fragalà, 4 condanne e 2 assoluzioni «La giornata più lunga dopo quel 26 febbraio»
Quattro condanne e due assoluzioni. Questa la decisione della prima sezione della corte d’assise, pronunciata dal giudice Sergio Gulotta questo pomeriggio in un’aula bunker dell’Ucciardone più blindata del solito. È in questo strano silenzio che dopo circa sei ore di camera di consiglio arriva il punto, almeno per quanto riguarda il primo grado, sull’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà, brutalmente aggredito la sera del 23 febbraio 2010 fuori dal suo studio e morto tre giorni più tardi, il 26 febbraio, per la gravità delle ferite riportate. I quattro condannati sono Antonino Abbate, per cui è stata decisa la pena più alta di 30 anni di reclusione, seguito da Francesco Arcuri e Salvatore Ingrassia, condannati rispettivamente a 24 e a 22 anni, mentre Antonino Siragusa dovrà scontare una condanna a 14 anni. Per la corte sono loro gli assassini di Enzo Fragalà. Assolti invece Paolo Cocco e Francesco Castronovo. I pubblici ministeri avevano invece chiesto, alla conclusione della loro requisitoria, l’ergastolo per tutti e sei gli imputati.
«L’avvocato Fragalà fu ucciso perché il suo agire era ritenuto in contrasto con gli interessi di Cosa nostra», è la ricostruzione dei pubblici ministeri Francesca Mazzocco e Bruno Brucoli. Sarebbe stato questo, sulla base di quanto emerso durante il dibattimento, il reale movente di quel brutale omicidio. «Cosa nostra non gradiva il suo operato, lo vedeva come un ostacolo che doveva essere punito – per citare ancora i magistrati -. “Chistu era cornutu e sbirru, doveva parrari chiu poco“. Doveva essere colpito perché era un carabiniere, perché non rispettava quell’imposizione di omertà su cui si fonda Cosa nostra». La molla che fa scattare l’aggressione è, nella ricostruzione dell’accusa, il fatto che lui aveva difeso Marchese e Fiumefreddo in un processo a carico anche di Antonino Rotolo, all’epoca a capo del mandamento di Pagliarelli, che agiva in modo congiunto con quello di Porta Nuova. «C’era un legame tra gli imputati e gli uomini di quel mandamento, un legame strettissimo tra Rotolo-Nicchi-Arcuri. Legame che di fatto si intreccia con questo processo».
Le indagini sono sin da subito fitte e approfondite, ma pur inquadrando quasi subito l’ombra di una possibile movente di matrice mafiosa, dovrà passare qualche anni prima di poter istruire un processo. A imprimere la svolta decisiva saranno le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Tra i primi a parlare c’è Francesco Chiarello, che inizia a collaborare nel 2015, che ai magistrati indica i nomi delle persone coinvolte in quell’aggressione, contribuendo a ad arrivare al processo. Per i pm lui è un collaboratore attendibile, in ragione del fatto che avesse anche ampiamente parlato della sua personale escalation criminale all’interno della famiglia mafiosa di Borgo Vecchio, accusandosi anche di un omicidio. Attendibile malgrado la tendenza ad aggiungere alcune fantasie alla ricostruzione che restituisce ai magistrati.
È per tutti e sei che la pubblica accusa chiede, alla fine della requisitoria del 20 gennaio, la pena dell’ergastolo. Sottolineando come «sia stata provata la responsabilità degli imputati coinvolti. Il dibattimento ha consentito di dimostrare con chiarezza la matrice mafiosa, la volontà di mettere in atto una vendetta nei confronti dell’avvocato Fragalà, che ha sovvertito la regola fondamentale su cui si basa Cosa nostra, quella dell’omertà. Mandante occulto di Rotolo e Di Giovanni, fino agli esecutori materiali, in una perfetta catena di montaggio tipica della mafia. Evidente anche il messaggio di punizione che assume la sua morte – le parole dei pm -. E poi, non si può non considerare il contesto e le modalità del delitto: il bastone di legno usato per infierire, la reiterazione e la violenza dei colpi, l’accanirsi su una parte sensibile come il cranio, e poi anche il luogo e la scelta del tempo: uno spazio isolato e coperto dal buio della sera. Tutti elementi che fanno pensare che si sia trattato di omicidio volontario. Gli aggressori avevano chiara la possibilità della morte».
Dettagli che, oltre a convincerli a chiedere l’applicazione della pena massima, li porta anche a tirare in ballo «tutte le aggravanti del caso, incluse quella della crudeltà e della ragione mafiosa sottostante al delitto». «Ci siamo – aveva scritto solo qualche ora prima Marzia Fragalà, figlia dell’avvocato, in attesa della sentenza -. Dopo 10 lunghi anni è arrivato il momento tanto atteso. In una situazione surreale a porte chiuse sarà la giornata più lunga della mia vita dopo quel 26 febbraio». Tanta l’amarezza dopo aver sentito la lettura della sentenza. «Non era quello che mi aspettavo e per cui lotto, insieme alla mia famiglia,da ben 10 anni – scrive sui social -. Certo, oggi una sentenza toglie ogni dubbio sulla matrice mafiosa di questo omicidio. Mio padre è stato ucciso dalla mafia perché era un avvocato libero, perbene e per questo scomodo. Ma ripeto, io questo già lo sapevo e mi aspettavo altro. Sono consapevole che nessuno me lo ridarà o mi consentirà di condividere con lui del tempo. Le mie figlie non hanno avuto la possibilità di conoscerlo, il privilegio di avere un nonno come lui. Siamo stati condannati alla sua lontananza per sempre. Dalla giustizia terrena mi aspettavo che i responsabili della sua morte, i suoi assassini, fossero condannati a stare per sempre in galera, per sempre lontani dalla propria famiglia, dai loro cari e per sempre lontani dalla società. Perché noi per sempre e loro no? Continuerò a pretendere giustizia, per sempre…».