Novecento – un monologo – di Alessandro Baricco (Universale Economia Feltrinelli – 49° edizione maggio 2006) è un libro di poche pagine ma che racchiude la storia di una vita intensa, sebbene vissuta sempre nello stesso luogo, che trasporta il lettore e lo porta ad immergersi, insieme al protagonista, in un mondo che ha le esatte sembianze di quello reale, ma che va oltre ; anzi lo avvolge e lo culla con una melodia a tratti frenetica poi lenta, violenta ma dolce.

Era jazz? Forse no, non aveva nome. Sembra quasi sentirla quella musica, sembra sentirne l’odore, il sapore, vederne i colori.

E la storia di un bimbo nato e cresciuto su una nave, la storia di un’amicizia e soprattutto di un grande amore.

Danny lo trovò proprio lì, su un pianoforte, dentro una scatola di cartone, quel bambino era suo, “l’avevano lasciato lì per lui”, solo una scritta sulla scatola: T.D. Limoni, “thanks Danny” pensò e visto che era nato agli inizi del secolo si chiamò Banny Boodman T.D. Lemon Novecento.

Sin da quando era nato non era mai sceso da quella nave, era quello il suo mondo, lì aveva trovato la sua felicità, in quel vecchio pianoforte che solo lui sapeva far danzare come fosse una giovane donna. Nessuno sapeva suonare così, sembrava quasi che fosse una musica suonata a quattro mani, e mentre esse scivolavano sui tasti il piano danzava e con lui la stanza e tutto ciò che c’era intorno. E da qui si entra per la porta che conduce fuori, in ogni luogo si desideri raggiungere, e giù per l’Oriente e su per l’Occidente: dal Sahara a Bertham Street a Parigi e così via.

In quei luoghi Novecento non c’era stato mai fisicamente ma i suoi occhi, il suo naso, le sue orecchie li conoscevano bene, meglio di uno che aveva veramente percorso quelle strade, ne conosceva gli odori e le vie e i suoni.

“ Il mondo, magari, non l’aveva visto mai. Ma erano ventisette anni che il mondo passava su quella nave, lo spiava. E gli rubava l’anima.. Sapeva leggere, non i libri ma la gente.”

“I segni che la gente si portava addosso. Lui leggeva, e con cura infinita, catalogava, sistemava, ordinava.. Ogni giorno aggiungeva un piccolo pezzo a quella immensa mappa che stava disegnandosi in testa, immensa, la mappa del mondo.. da un capo all’altro, città enormi e angoli di bar, lunghi fiumi, pozzanghere, aerei, leoni, una mappa meravigliosa. Ci viaggiava sopra da dio” (..)

Tante volte aveva guardato la terra dal ponte ma non era sceso mai perché era una cosa troppo grande per lui, non era per lui quel mondo,  c’era tutto lì tranne una cosa, qualcosa di cui Novecento aveva sempre avuto bisogno e che solo sul Virginian aveva trovato: una fine. Una cosa l’aveva sempre spaventato: l’infinito, lui questo non l’aveva conosciuto e nessuno gliene aveva parlato mai. Così, nonostante una volta aveva provato a scendere, non lo fece mai e tornò indietro dove una fine c’era, e la conosceva bene, i suoi 88 tasti.

Novecento morì sul Virginian e anche se nel mondo reale non c’era sceso mai, lui la felicità l’aveva incontrata davvero e l’aveva accolta come forse un uomo vissuto sulla terra non seppe fare mai.

Simona Barravecchia

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