Lo chiamano effetto Werther. Dall’ondata di suicidi registrata a fine Settecento dopo la pubblicazione de I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang Goethe, classico in cui il protagonista si toglie la vita per amore. Sono passati secoli, da allora, ma la forza della parola nell’influenzare i comportamenti rimane intatta. Ed ecco perché, da decenni, all’interno […]
Foto di Luisella Planeta
Perché non trattiamo le notizie di suicidio (e quando invece lo facciamo)
Lo chiamano effetto Werther. Dall’ondata di suicidi registrata a fine Settecento dopo la pubblicazione de I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang Goethe, classico in cui il protagonista si toglie la vita per amore. Sono passati secoli, da allora, ma la forza della parola nell’influenzare i comportamenti rimane intatta. Ed ecco perché, da decenni, all’interno delle redazioni giornalistiche si discute dell’opportunità di riportare notizie di suicidi. Discussione abbastanza asciutta, a dire il vero, specie dopo la pubblicazione nei primi anni Duemila di specifiche linee guida da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). In cui, a seguito di numerosi studi e aggiornamenti negli anni, viene chiarito come i giornalisti abbiano «l’obbligo di essere cauti nel riportare i casi di suicidio, bilanciando il diritto all’informazione con il rischio di nuocere».
Che, nello specifico, significa evitare il rischio di emulazione, non limitato al caso dei suicidi e che in Italia ha scatenato grande dibattito a metà degli anni Novanta a proposito del fenomeno dei sassi lanciati dai cavalcavia. Una notizia presente ogni giorno, in ogni telegiornale, per poi scomparire dall’agenda dei media quando ci si è resi conto che parlarne non faceva che peggiorare le cose. La regola è insomma chiara: le notizie di suicidi vanno evitate. Con alcune eccezioni – sempre presenti nella complessità del mondo – affidate alle regole di deontologia e alla sensibilità dei cronisti. Come nel caso di un personaggio pubblico. O quando il contesto in cui è maturata la scelta personale di togliersi la vita non chiami in causa responsabilità di altri che vanno sollevate: pensiamo ai suicidi nelle carceri spesso dovute al mancato trattamento della malattie mentali o a una giovane madre – caso reale, di diversi anni fa – che decide di farla finita in preda a una depressione post partum non accettata dalla famiglia. In questi casi, informare è necessario e la notizia di cronaca nera assume il valore di una spia del disagio sociale, vero tema da trattare.
Con alcune strategie da mettere in atto per bilanciare il rischio d’emulazione: un tono asciutto – senza sensazionalismi o enfasi -, una posizione della notizia non troppo di rilievo e, soprattutto, nessuna menzione sulle modalità del suicidio. Per decidere, insomma, se pubblicare o no, si deve valutare un criterio che rimane basilare per ogni notizia: questo caso è di interesse pubblico? Va da sé che la storia intima di una persona – di cui poco comunque potremmo sapere -, compreso il suo volontario epilogo, non lo sia. Rimane un drammatico fatto privato con cui dovranno fare i conti altre persone da tutelare: coloro che sopravvivono.