Sembra passata una vita, in realtà sono solo undici anni. In questi casi la tendenza è sempre quella di dimenticare: dimenticare, perché è troppo doloroso; rimuovere, perché non ci si spiega come sia potuto accadere; girarsi dall’altra parte, perché «dopotutto io cosa posso fare?». Il 3 ottobre 2013 a poche miglia dal porto di Lampedusa un naufragio ha causato 368 vittime e circa 20 persone migranti sono risultate disperse. Vista la portata della tragedia, quel naufragio di undici anni fa è stato definito una delle più gravi tragedie marittime degli ultimi decenni. Come molte imbarcazioni che trasportavano persone migranti in quegli anni, il peschereccio di 20 metri che poi sarebbe affondato è salpato dalla Libia, per la precisione dalla città di Misurata. Un viaggio iniziato l’1 ottobre e che avrebbe condotto in uno dei Paesi membri dell’Unione europea – l’Italia – migranti per la gran parte di origine eritrea.
Pare che a circa mezzo miglio (cioè poco meno di un chilometro) dalle coste di Lampedusa i motori si bloccarono e sembra che, per attirare l’attenzione delle navi nella zona, l’assistente del capitano agitò uno straccio infuocato, cosa che produsse molto fumo e forse qualche principio di incendio. Questo avrebbe spaventato parte delle persone migranti a bordo, le quali si spostarono da un lato dell’imbarcazione – che era pienissima – cosa che la fece ruotare per tre volte su sé stessa prima di affondare. L’allarme fu lanciato intorno alla 7 da alcune imbarcazioni e da pescherecci nelle vicinanze, i cui equipaggi notarono le persone in mare e si mobilitarono per i primissimi soccorsi. Poi arrivò anche la guardia costiera: furono salvate 155 persone, di cui 41 minori, ma furono recuperate anche decine e decine di corpi. Le ricerche andarono avanti per giorni. L’11 ottobre a circa 120 chilometri al largo di Lampedusa un altro naufragio: morirono 200 persone migranti di origine siriana, 60 delle quali minori.
L’allora presidente del Consiglio dei ministri Enrico Letta – che guidava un governo di larghe intese sostenuto dal Partito democratico (centrosinistra), dal Popolo della libertà (centrodestra) e da alcuni partiti più piccoli – parlò di «una tragedia immensa». L’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, disse: «Provo vergogna e orrore. È necessario rivedere le leggi anti-accoglienza» in vigore in quel periodo. Papa Francesco – eletto nel marzo precedente e reduce da una visita a Lampedusa, effettuata circa tre mesi prima della tragedia – invitò «a pregare per le anime delle vittime del naufragio», parlando di «barche che invece di essere una via di speranza, sono una via di morte». Ma, com’è comprensibile, il naufragio del 3 ottobre 2013 non suscitò reazioni solo in Italia o nei Paesi vicini: la notizia venne ripresa da tutte le maggiori testate internazionali, che ne parlarono per molti giorni. Sulle tv, sui siti d’informazione e sui social media vennero mandate in onda le immagini di decine e decine di bare, una accanto all’altra, allineate dentro l’aeroporto di Lampedusa. Con ogni probabilità furono proprio quelle immagini a scuotere fortemente l’opinione pubblica e la stampa italiana e internazionale.
Quella tragedia, infatti, non produsse soltanto dichiarazioni di forma e indignazione momentanea, ma – almeno nel breve periodo – ispirò azioni politiche. Due settimane dopo il naufragio il governo italiano diede il via all’operazione Mare nostrum: una missione militare e umanitaria, che aveva come fine il salvataggio in mare delle persone migranti in difficoltà nel Canale di Sicilia (il mare che separa le coste della Sicilia meridionale da parte delle coste dell’Africa settentrionale). Mare nostrum – attuata dalla Marina militare italiana e dall’Aeronautica militare del nostro Paese – partì il 18 ottobre 2013 e si concluse poco più di un anno dopo, il 31 ottobre 2014. L’unico Stato che diede supporto all’Italia in quest’operazione fu la Slovenia, che inviò una nave. L’allora ministro dell’Interno, Angelino Alfano, disse che, nei 12 mesi in cui fu attiva, Mare nostrum salvò circa 100mila migranti. Quando l’operazione si concluse venne sostituita da un’altra iniziativa, il cui paradigma era cambiato: si passava dal soccorso delle persone migranti al controllo delle frontiere dell’Unione europea. L’operazione Triton partì l’1 novembre 2014 e fu condotta da Frontex, l’agenzia europea che – appunto – si occupa di controllare le frontiere dell’Unione.
Da allora in avanti, piuttosto che capire come provare a governare un fenomeno epocale – causato anche dalle rivolte sociali che la stampa ha ribattezzato Primavere arabe – il governo italiano e le leadership dell’Unione europea hanno provato a tappare il buco, a posporre la questione, cercando di tamponare una situazione che ancora oggi non è stata né tamponata né tantomeno risolta o governata. Dal 2016 l’Unione europea ha versato alla Turchia diversi miliardi di euro; così facendo si è assicurata che quel Paese stoppasse diverse centinaia di migliaia di migranti che volevano percorrere la rotta dei Balcani occidentali per entrare nell’Ue. Nel 2017 il governo italiano – guidato allora da Paolo Gentiloni (Partito democratico) e sostenuto anche da Alternativa popolare (centrodestra) e da alcune forze più piccole – firmò con la Libia un memorandum d’intesa fortemente voluto dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, anche lui del Pd: l’Italia avrebbe sostenuto economicamente la guardia costiera libica nel contrasto all’immigrazione clandestina e nel traffico di esseri umani. Peccato, però, che le persone impiegate nella guardia costiera del Paese nordafricano facessero e facciano ancora parte di milizie locali spesso impegnate proprio nel traffico di esseri umani. In entrambi i casi – quello dell’accordo Ue-Turchia e quello del memorandum Italia-Libia – si tratta di esternalizzazione della questione. Cosa che, oltre a non aver dato i frutti che le parti contraenti speravano, non teneva in considerazione i diritti umani. Senza contare che in questo modo si è dato a due Paesi governati in modo non democratico il potere di – e mi scuso per l’espressione, visto che si parla di persone – aprire e chiudere i rubinetti quando più fa loro comodo.
Nel 2024, nonostante sia passata molta acqua di governo sotto i ponti, le cose non sono cambiate. All’Ue il ruolo di tappo esercitato dalla Turchia va ancora bene; l’Italia non ha chiesto di rivedere il memorandum, che quindi si è rinnovato tacitamente. In più, nel luglio 2023 l’Unione europea e la Tunisia hanno firmato un memorandum d’intesa – visto di buon grado dal governo italiano, guidato ora da Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) – che prevede lo stanziamento di circa 105 milioni di euro per il Paese nordafricano, che potrà così controllare i suoi confini e impedire le partenze. Nel frattempo, però, la Tunisia sta diventando uno Stato sempre meno democratico, dopo che il suo presidente sta progressivamente accentrando su di sé i poteri.
Possono mai funzionare soluzioni del genere? A cosa può servire costruire centri per migranti in Albania, come ha fatto il governo italiano? Al progetto, tra l’altro, si sarebbe mostrato interessato il nuovo premier del Regno Unito, il laburista Keir Starmer. Restando da quelle parti, aveva un senso politico la proposta del precedente governo britannico – quello guidato dal conservatore Rishi Sunak – di deportare le persone migranti in Ruanda? Il governo tedesco – guidato dal socialdemocratico Olaf Scholz – fa bene a reintrodurre i controlli alle frontiere, pare per rispondere al calo di consensi del suo partito e inseguendo così la destra del suo Paese su uno dei suoi temi forti? Sembra che sull’immigrazione le classi politiche della maggior parte dei Paesi brancolino nel buio e preferiscano presunte soluzioni momentanee a più ragionati interventi di sistema. Nessuno ha mai detto che governare una questione così grande sarebbe stato semplice, ma continuare così sembra davvero come voler svuotare il mare con il proverbiale cucchiaio. Un mare che decine di migliaia di persone tentano comunque di attraversare.
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