Natale Romano Monachelli condannato a 24 anni Per la Corte ha ucciso il fratello e la cognata nel ’94

Condanna a 24 anni per Natale Romano Monachelli, assente in aula, e 100 mila euro alla parte civile, Maria Correra. È questo l’esito raggiunto, dopo quasi cinque ore di camera di consiglio, da parte della giuria della seconda sezione della corte d’assise d’appello. Una sentenza che mette, almeno momentaneamente, il punto a una vicenda che giuridicamente si trascina dai primi anni duemila. Di certo, ad oggi, rimane solo quel Fiorino Fiat bianco ritrovato sul lungomare di Villagrazia di Carini con dentro i corpi di un uomo e di una donna stravolti dalle fiamme. Sono Filippo Romano Monachelli e sua moglie, Elena Lucchese. Non sono morti lì dentro, però. A spegnere le loro vite sono stati alcuni colpi di pistola sparati un giorno di novembre del 1994Unico imputato per il duplice omicidio è il fratello di lui. L’iter processuale nei suoi confronti si avvia solo nel 2001, quando l’ex convivente, Erika Stjernquist, lo accusa del delitto. È quello il momento in cui viene iscritto nel registro degli indagati, ma la parabola giudiziaria durerà poco, a causa delle ritrattazioni della donna. Ritrattazioni che, di fatto, imprimeranno inevitabilmente un’impronta e una direzione ben precisa all’intera vicenda.

La corte di primo grado lo assolve per un problema di diritto: anche se credibili, perché dettagliate e circostanziate, le dichiarazioni dell’ex compagna svedese sono precedenti alla fase dibattimentale, non entrano perciò all’interno del processo. Così come le dichiarazioni dei testi svedesi. A valere, quindi, è solo la sua ritrattazione. Un «mi sono inventata tutto» che pesa come un macigno sull’intero processo. In secondo grado, però, una sorpresa: i giudici lo condannano a 24 anni. Sentenza annullata poi dalla Cassazione. A distanza di anni, però, è sempre Erika il cuore dell’intera vicenda. Molto più delle vittime e dell’imputato stesso. Un filone, il suo, importante tanto quanto quello mafioso, che si inserisce a gamba tesa all’interno della vicenda. Com’è possibile che lei e i collaboratori di giustizia raccontino la stessa storia? È questo uno dei crucci più martellanti dell’accusa. E a sfilare sono pentiti dal nome importante: il primo è Angelo Fontana nel 2009, che tira fuori l’episodio di via dei Cantieri del 1995 durante il processo per l’omicidio di Giovanni Bonanno, esponente di spicco del mandamento di Resuttana-San Lorenzo.

Alla sbarra racconta che la scomparsa del giovane boss potrebbe essere dovuta al fatto che, anni prima, avesse commissionato a Romano Monachelli l’omicidio di Mimmo Pipitone, figlio di Antonino, reggente della famiglia mafiosa dell’Acquasanta. Per convincerlo gli aveva fatto credere che Pipitone senior fosse responsabile del delitto del padre, Cesare Romano Monachelli, morto nel 1973. Un omicidio per il quale, però, a essere processato e poi condannato era stato Giovanni Pitarresi, capo della famiglia mafiosa di Bolognetta, rilasciato dopo un paio di anni a causa dell’omicidio, a processo in corso, dell’unico testimone che lo accusava di quel delitto. L’omicidio di Mimmo Pipitone viene sventato dai Fontana, ma perché nessuno fa niente nei confronti del presunto mandante? È un tormentone, questo, portato avanti con tenacia dalla difesa, che ha sempre puntato a scardinare l’attendibilità dei pentiti e di questo racconto in particolare. Possibile che la mafia dell’Acquasanta non reagisca?

Insieme ad Angelo, però, c’è anche il nipote Gaetano Fontana, nel ’95 poco più che ventenne. È l’unico collaboratore, lui, ritenuto «genuino e coerente» dalla difesa. «Non significa che siccome è un condannato per mafia tutto quello che esce dalla sua bocca siano solo menzogne», precisa in aula l’avvocato Salvatore Pirrone, legale con l’avvocato Angelo Barone dell’imputato. Ma nell’elenco dei pentiti ci sono anche Vito Galatolo, Maurizio Spataro – in passato autista personale di Giovanni Bonanno – e, il più recente, Giuseppe Tantillo. Un delitto, quello dei due coniugi, sviscerato in ogni suo dettaglio e controdettaglio. Anche tra ieri e oggi, durante l’arringa finale e le repliche del procuratore generale Giuseppe Fici, momenti durante i quali sono riaffiorate le storiche tensioni a cui le due parti ci avevano abituati durante le udienze passate.

Resta nebuloso, invece, il movente, che potrebbe ricollegarsi all’attività di spaccio dei Romano Monachelli nella piazza di Borgo Vecchio. Attività per le quali i due fratelli, Natale e Filippo, finiscono in galera nel 1985 insieme alla madre Giovanna Vitale. Che la vittima, a causa della sua tossicodipendenza, avesse contratto qualche debito di troppo? Intanto, per le motivazioni del giudice Biagio Insacco si dovranno aspettare 90 giorni, dopodiché la palla passerà alla Cassazione. Soddisfazione da parte dell’avvocato di parte civile Lorenzo Marchese, che rappresenta Maria Correra, madre di Elena Lucchese: «Sono contento per la signora, so quanto ha sofferto in questi anni».


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