Salvo Mostaccio a 28 anni ha inciso il suo primo album che ha per protagonista principale Torre Archirafi, il borgo sul mare dove è cresciuto. Tra storie del passato - da u sugghiu alla cupola di ferro - e quotidianità fatta di «tequila e vavalaggi»
Mostalgia, album d’esordio del ripostese Ture Most L’indie rap impastato di nostalgia, mare e leggende
«Cresciuto a vavalaggi, pane e Bob Dylan». Salvo Mostaccio, in arte Ture Most, si presenta così. A 28 anni, una laurea in Scienze motorie e una passione per la musica ereditata dal papà che non c’è più, ha lanciato l’album di esordio, Mostalgia. Un indie rap impastato di amore e leggende di Torre Archirafi, il borgo sul mare a Riposto dove è cresciuto. «Perché la nostalgia? Perché ho capito che era il filo comune a tutte le immagini che ho trasformato in canzoni. Ci sguazzo nella nostalgia. E come Batman sceglie il costume di pipistrello perché ne ha paura, io ho fatto della nostalgia un costume che mi sta a pennello».
Sarà per il rapporto viscerale con gli scogli, i falò, l’amore tra i ciottoli e sotto le stelle, le albe attese a Torre dove «il blu cede il passo all’arancione», tutte fotografie che tornano nelle undici tracce che compongono l’album (disponibile su Spotify e Youtube). Sarà per la perdita prematura del padre Francesco, conosciuto da tutti come Frank, quando Salvo ha solo 19 anni. «Era un cantautore, sono cresciuto tra le note. Mio papà era un altro che, come me, ci andava di pancia. Lo faceva per passatempo e con la musica non cia uscatu mai na lira, ma scriveva tanto». Una delle canzoni che papà Francesco ha lasciato è Icaro. Salvo l’ha reinterpretata, partendo dal testo e dalla musica che ha ereditato. Nasce così Per sempre Icaro, dove alla voce del 28enne ripostese si mischia quella del padre. «Alterno il disegnare la mia mente su un quaderno all’aspettarmi un tuo messaggio se sblocco lo schermo», canta. «Icaro – spiega Ture Most – è lui. Gli stava stretto questo mondo, era un appassionato della vita ma la sua dimensione da sognatore è stata stroncata dalla malattia che lo ha fatto sbattere a terra».
Forte il legame con il territorio, raccontato in una chiave originale. Alla quotidianità – cantata in brani come Fratelli di calia, Jonia di notte, Nella folla e Acquasalata – si aggiungono infatti tracce che raccontano leggende e storie del passato. Come Tobruk. Sul lungomare di Riposto, dove oggi sorge un chioschetto, c’è una cupola rossa di ferro, parte sommitale di un casotto interrato costruito dai tedeschi durante l’occupazione nazista come postazione d’artiglieria per colpire gli aerei alleati. Un piccolo bunker chiamato in quegli anni anche Tobruk, dal nome della città della Libia. E Tobruk è anche un brano in cui Mostaccio ripercorre la storia, mutuata dai racconti dei nonni, di un aereo abbattuto: della paura di chi è a terra all’allarme della sirena, e della vita che scorre davanti agli occhi dell’uomo che sta per morire precipitando in mare e ha il tempo di guardare giù e vedere una mamma che stende le lenzuola, la scuola, la chiesa, prima dell’«acqua del mare, una croce, più niente».
«Mi sono documentato con un appassionato di storia, carissimo amico mio di mio papà, Giuseppe Castorina, che ha un blog dove ha raccolto tante storie e leggende di Riposto». Come quella do sugghiu da turri, figura mezza umana e mezza lucertola, leggenda cominciata a circolare dopo alcuni furti dalle case. Al punto da organizzare, negli anni ’80, vere ricerche per catturare la misteriosa e mostruosa creatura. Ne La luna e il canneto, Ture Most ci mette la sua immaginazione trasformando il mostro in «un paesano di giorno follemente innamorato, ma di un amore impossibile, che di notte diventa un mostro».
Dualità. Altra chiave di lettura del primo lavoro del 29enne ripostese. Come l’accoppiata che dà il titolo a un’altra canzone, Tequila e vavalaggi, «quella che mi rappresenta di più. La tequila è il simbolo dello sdoganare qualcosa di internazionale, i vavalaggi (le lumache di mare, ndr) sono una cosa nostra. È l’incontro di cose distanti, un dualismo continuo, come papa Wojtyla che fa rima con ni lavaumu nda pila. Io sono così, passo dall’essere rude alla poesia, dall’essere conservativo al voler esplorare».
Un mix, come i suoi riferimenti artistici. «Sono cresciuto con De Gregori e Bob Dylan, sono una spugna, tutto mi dà ispirazione. Il primo rapper che ho ascoltato con dedizione è Mondo Marcio. Dopo mio padre è lui il mio riferimento, ma mi piace ascoltare tutto il rap e l’indie rap. Tra i siciliani l’Elfo è un po’ il principe di questo genere al momento. Ma ci sono anche Reiven, Johnny Marsiglia e speriamo un giorno ci sarà anche Ture Most». Come per l’Elfo, il dialetto si alterna molto all’italiano – «penso in siciliano e canto in siciliano, non potrebbe essere diversamente» – e non manca qualche riferimento politico «ma implicito, perché secondo me un’artista non deve essere etichettato». Come nel brano Nella folla: «Il mendicante arabo nasconde in bocca un haribo, ma basta che fa un movimento strano scoppia il panico. Ha capito che pure se sale è sempre Sud, ma se torna indietro a casa non ci torna più». «La citazione di De Gregori è voluta – conclude Mostaccio – e mi piacerebbe un giorno sentire cantare questi versi da uno che è contro l’immigrazione».