Morto a 94 anni Michelangelo Antonioni, se ne va mezzo secolo di storia del cinema

Michelangelo Antonioni è morto ieri sera, verso le venti. Si è spento serenamente in casa, su una poltrona, con accanto la moglie Enrica Fico. Per una strana combinazione del destino, è mancato nello stesso giorno dell’altro grande Ingmar Bergman.
Secondo fonti della famiglia, domani in Campidoglio sarà allestita la camera ardente. I funerali dopodomani a Ferrara.

Era nato il 29 settembre del 1912 a Ferrara. Laureatosi a Bologna in economia e commercio, inizia a lavorare come critico cinematografico al Corriere padano e a Cinema prima di trasferirsi a Roma dove frequenta il Centro sperimentale, collaborando anche con Rossellini.

Nella sua terra realizza il primo documentario, “Gente del Po”, terminato nel ’47. Dopo la guerra, lavora come sceneggiatore a “Caccia tragica”, di Giuseppe De Santis (1946) e allo “Sceicco bianco” di Fellini (1952).
Il suo primo film, “Cronaca di un amore” (dopo altri due documentari) è del 1950 e già rivela alcune propensioni del futuro autore dell'”Avventura”: uno spunto quasi giallo e l’interesse per i risvolti psicologici dei suoi personaggi borghesi. Seguono “I vinti” (1952) sulla crisi della gioventù europea, e “La signora senza camelia’” (1953) sull’ ambiente del cinema.

“Le amiche” (1955) e “Il grido” (1956) precedono quello che molti considerano ancora oggi il suo capolavoro e l’inizio di una ideale trilogia: “L’ avventura” (1959), accolto a Cannes da pareri discordanti (anche se per molti è la rivelazione di un autore raffinato e poetico che avrà sempre più consensi nella critica che fra il grande pubblico) a causa di uno stile severo e rigoroso, troppo a lungo scambiato per lento o noioso.

All'”Avventura” fanno seguito “La notte” (1960) e “L’eclisse” (1962) che, fra l’altro, rinsaldano il legame, personale e professionale, con Monica Vitti, interprete principale di tutti e tre i film. “Deserto rosso”, del 1964, sempre con Monica Vitti, segna il suo passaggio al colore. Un film anche questo oggetto di numerose critiche, che però è valso ad Antonioni il primo Leone d’Oro al Festival di Venezia (il secondo, alla carriera, gli è arrivato nel 1983).

Con i film successivi Antonioni allarga i suo orizzonte dalla borghesia italiana alla società internazionale: “Blow up” (1966) ambientato in Inghilterra, e vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes dell’anno seguente, e “Zabriskie Point” (1970) nell’America della contestazione giovanile e della musica rock (celebre la scena finale dell’esplosione con la musica dei Pink Floyd).

La Cina è invece al centro di un nuovo documentario (“Chung Kuo:Cina,” 1972) prima di spostarsi a Barcellona e in Africa per “Professione reporter” con Maria Schneider e Jack Nicholson (1975). Antonioni è anche attratto dalla sperimentazione e realizza su supporto magnetico “Il mistero di Oberwald” (1980) ancora con la Vitti. L’ attenzione agli altri media lo porta, subito dopo, anche a realizzare un videoclip per Gianna Nannini (“Fotoromanza”).

Torna al cinema nell’ 82 con “Identificazione di una donna” con Tomas Milian, sdoganato così dal personaggio del Monnezza, e poi, dopo un lungo silenzio dovuto alla malattia, con “Al di là delle nuvole” (1995), a quattro mani con Wim Wenders e l’ultimo “Eros”, per cui realizza l’episodio “Il filo pericoloso dele cose” (gli altri due episodi sono diretti da Steven Soderbergh e Wong Kar Wai). Il 1995 è anche l’anno in cui l’Academy di Hollywood gli riconosce l’Oscar alla Carriera.

Repubblica.it

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