«Mio padre suicida dopo aver denunciato il racket» Salvini invitato a spiegare la storia di Rocco Greco

Riccardo Rocco Greco a Gela lo conoscevano in tanti. Per via della sua azienda familiare che gestiva appalti in tutta Italia, ma soprattutto per lo spazio che l’imprenditore si era ritagliato con le sue denunce: nel 2008 si era barricato, con altri imprenditori del settore, sul tetto dell’edificio che ospitava l’Ato Cl2, per protestare contro una gara d’appalto della nettezza urbana assegnata ad altri e ritenuta irregolare; e nello stesso periodo aveva denunciato e fatto arrestare 11 componenti del racket delle estorsioni che lo stavano taglieggiando. Aveva fatto parte del direttivo dell’associazione antiracket e antiusura di Gela Gaetano Giordano. Rocco Greco mercoledì si è tolto la vita sparandosi un colpo di pistola alla tempia. Non riusciva a tollerare che la sua azienda fosse stata espulsa dalla white list della prefettura di Caltanissetta. Il Tar di Palermo aveva respinto il suo ricorso qualche giorno prima, il 21 febbraio. «La decisione non è stata motivata – spiega il figlio Francesco, ora rimasto con la sorella e la madre a gestire la Cosiam – secondo i giudici c’era semplicemente il sospetto che mio padre fosse un soggetto debole di fronte alle infiltrazioni». 

Una tesi figlia di un processo in cui gli imputati, denunciati da Rocco e poi condannati, lo accusarono di essere non una vittima ma un complice. Ne nacque un altro processo in cui l’imprenditore finì a sua volta imputato ma che si concluse con l’archiviazione. Eppure la risoluzione positiva della vicenda non è bastata per rimanere nella white list della prefettura, e non essere in quell’elenco significa perdere gli appalti. «Avevamo lavori in Emilia, Friuli, a Genova, in Campania e Calabria, e poi ovviamente il grosso in Sicilia, avevamo appalti con Enel, Raffineria di Gela e Lukoil. Li abbiamo persi tutti», ricostruisce il figlio. 

La Cosiam si occupa di costruzioni civili e ambientali. Nel 2014 viene inserita nella white list dalla prefettura di Caltanissetta; un anno dopo, a fronte della richiesta di riconferma, si apre una fase istruttoria durata tre anni e mezzo. L’11 gennaio del 2019 arriva la risposta negativa. I Greco fanno ricorso. E dieci giorni dopo il Tar di Palermo risponde positivamente alla richiesta di sospendere l’interdittiva antimafia per un mese, in attesa dell’udienza di merito del 21 febbraio, dall’esito invece negativo. «Il primo giudice aveva evidentemente riconosciuto che c’era qualcosa che non quadrava in quell’interdittiva, ma il giudice dell’ultima udienza ha valutato diversamente. Io la mafia non l’ho mai conosciuta, mio padre ci ha sempre protetto dal passato, l’ho vista solo quando l’altro giorno ho raccolto lui pieno di sangue e l’ho caricato sull’ambulanza».

Per Francesco la colpa è di «un approfondimento sommario e superficiale, un errore – continua – che pensavamo potesse essere superato. Evidentemente per mio padre non era così. Lui si dispiaceva del fatto che cose del passato di cui lui era stato protagonista adesso danneggiano anche noi». Dopo l’interdittiva, i Greco chiedono al loro avvocato se è possibile consegnare le chiavi della loro azienda al prefetto. «Abbiamo pensato: perché un’impresa di proprietà di mafiosi può continuare a operare in amministrazione giudiziaria e la nostra deve morire? Eravamo disposti a fare un passo indietro per il bene dell’azienda e dei dipendenti, l’importante era non perdere gli appalti, noi nel frattempo avremmo dimostrato di essere persone per bene. Ma in Italia questo non si può fare». La battaglia di Francesco e della sua famiglia continuerà adesso davanti agli altri organi di giustizia amministrativa, ma senza il padre. 

La storia di Rocco Greco ha sollevato aspre polemiche. Secondo Piero Grasso, ex magistrato ora deputato di Leu, «esiste un commissario antiracket che dovrebbe cercare di venire incontro a queste esigenze. Fatti come questi – ha aggiunto – sono sempre una sconfitta dello Stato, però le norme ci sono: bisogna mettere a disposizione le risorse». Il collega Erasmo Palazzotto chiede alle istituzioni di «fare chiarezza su tutti i passaggi che hanno portato un imprenditore a fare una scelta così drammatica. Penso che il ministro Salvini debba trovare il tempo per spiegare esattamente cosa è successo e che la commissione parlamentare Antimafia dovrebbe aprire una riflessione per comprendere come sia possibile che sempre più spesso chi denuncia finisce per diventare vittima anche dello Stato».


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