Sulle attività della guardia costiera di Tripoli nelle scorse settimane sono stati in molti a sollevare diverse perplessità. «Hanno armi a bordo e spesso rapporti con i trafficanti», dichiara il direttore della Ong ProActiva Open Arms. «In passato abbiamo fatto patti del genere con Gheddafi», commenta un esperto
Migranti, i dubbi sulle azioni delle autorità libiche «Accordi con Italia si limitano a blocco partenze»
Inizio maggio. Una motovedetta libica passa ad alta velocità a pochi metri dalla nave della Ong Sea Watch. Passano poche settimane e su Twitter circola un fermo immagine nel quale si vedono le autorità nordafricane che puntano le armi verso i migranti intercettati a bordo di un gommone. Sono solo due degli episodi che di recente hanno attirato l’attenzione sulle attività della guardia costiera di Tripoli, in seguito agli accordi stipulati a febbraio con l’Italia. Il cosiddetto memorandum che, secondo il governo Gentiloni, dovrebbe ridurre il numero di sbarchi sulle coste italiane. Come è presto detto: bloccando i migranti e riportandoli in Libia.
Su ciò che attende chi, dopo essersi messo in mare sognando di arrivare in Europa, si ritrova a essere riportato nello stesso Paese in cui spesso si sono registrano violenze da parte dei trafficanti, l’accordo Italia-Libia dice poco. O quantomeno, negli otto articoli che lo compongono, ci si limita a citare il rispetto dei diritti umani. Troppo poco per un Paese dagli equilibri ancora precari, con il governo di Fayez al-Serraj – quello riconosciuto a livello internazionale – che al momento non è in grado di gestire l’intero territorio.
«Guardia costiera libica? Credo che l’espressione possa distorcere la realtà, portando molti a pensare che si tratti di un’autorità simile a quella italiana, ma non è così». A parlare a MeridioNews è Riccardo Gatti, direttore della Ong spagnola ProActiva Open Arms, da tempo impegnata nelle attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Il recupero dei migranti nelle acque internazionali – con le organizzazioni non governative che nell’ultimo anno hanno spostato il proprio raggio d’azione ai confini marittimi con la Libia – ha portato in più di un caso Gatti ad avere a che fare con la guardia costiera libica. «Cosa è cambiato dalla firma del memorandum? Abbiamo notato un maggiore attivismo dei libici, o perlomeno da parte di coloro che dovrebbero fare parte delle autorità di Tripoli – racconta -. Il condizionale è d’obbligo perché il Paese nordafricano rimane allo sbando e in mare si trovano milizie che fanno riferimento a più realtà. Comunque si tratta di azioni di recupero discutibili».
Gatti fa riferimento alla presenza di armi a bordo dei mezzi usati dalla guardia costiera libica. «Spesso il nostro è un contatto visivo e ci limitiamo a scambiare qualche cenno, consapevoli di avere a che fare con autorità particolari, di certo meno strutturate delle nostre», prosegue il direttore della Ong. Che ricorda un caso in cui i libici hanno collaborato al trasbordo un gruppo di migranti sulla nave di ProActiva. «Sulla loro ci stava una persona che parlava italiano, fatto raro considerato che molti non parlano neanche l’inglese, e ci disse che avremmo dovuto seguirli verso Tripoli, ma – specifica – abbiamo fatto presente che ci saremmo mossi soltanto sotto il coordinamento della centrale operativa di Roma». Che i rapporti tra libici e Ong non sono dei migliori, lo dimostra anche il fatto che ci sarebbero stati casi in cui la guardia costiera nordafricana avrebbe «sparato colpi in aria» per rivendicare il diritto di recuperare migranti che, a detta delle autorità di Tripoli, si trovavano nelle loro acque territoriali.
Ad allarmare di più sarebbero però i racconti dei migranti salvati. «La stragrande maggioranza ci dice che in Libia la guardia costiera coincide spesso con i trafficanti, che il livello di corruzione in quel Paese è a livelli incredibili – aggiunge Gatti -. E in tal senso mi chiedo come mai in Italia in questo caso non si sia alzato un polverone sul fatto che il governo ha deciso di finanziare le attività poco trasparenti delle autorità libiche».
Chi risponde a distanza è l’esperto di sicurezza e docente dell’Università Cattolica di Milano Marco Lombardi. «Questi accordi non sono nulla di nuovo. In passato l’Italia li ha fatti proprio in Libia con Gheddafi, al quale non si andava a chiedere come trattasse i migranti trattenuti nel deserto, e prima ancora con l’Albania, che negli anni Novanta si impegnò a frenare le traversate nell’Adriatico quando il governo italiano decise di pagare». In questi giorni è stato il ministro degli Interni, Marco Minniti, a rivendicare l’utilità degli accordi presi con Al-Serraj «se vuoi fermare le partenze». La collaborazione prevede, come detto, che l’Italia finanzi le autorità libiche innanzitutto attraverso un’opera di formazione e di fornitura di strumentazione. «Rimettiamo a posto le loro motovedette», ha detto il capo del Viminale.
Per Lombardi, la consapevolezza di avere a che fare con un governo che non ha il pieno controllo di quanto avviene in Libia lascia spazio a diverse zone d’ombra. «È innegabile che ci siano stati diversi segnali di contiguità tra persone impegnate nelle autorità nazionali e trafficanti», dichiara il docente. Al quale fa eco Marco Maiolino, membro del team che si occupa della rivista specialistica ItsTime, che ha approfondito i contenuti del memorandum. «L’accordo punta anche alla stabilizzazione del confine a sud della Libia, quello con il Niger. È da lì che passano non solo i migranti ma anche le armi, la droga e il contrabbando di prodotti farmaceutici – spiega -. È una zona interessata da circa 60 realtà tribali e di certo non facile da controllare. Quale può essere il destino dei migranti bloccati in un territorio del genere? Non è facile dirlo, il memorandum non ne parla», conclude.